Corriere della Sera - Sette

«FALCONE FU CHIAMATO BATMAN, LO SCERIFFO, IL GIUSTIZIER­E... ANCHE COSÌ COMINCIÒ LA SUA FINE»

- LA COPERTINA DELL’ULTIMO LIBRO DI ROBERTO SAVIANO, SOLO È IL CORAGGIO, (BOMPIANI) RICOSTRUZI­ONE DEGLI ANNI DELLA LOTTA ALLA MAFIA, CULMINATA CON GLI OMICIDI DEI MAGISTRATI FALCONE E BORSELLINO DI TERESA CIABATTI

Nell’ultimo romanzo Roberto Saviano ha rimesso in fila la storia di Cosa Nostra, da quando ancora non si sapeva che si chiamava così: «Il film Il Padrino svelò per primo quel sistema di potere, i mafiosi lo odiavano»

l nuovo romanzo di Roberto Saviano Solo è il coraggio (Bompiani) riesce di nuovo — come Gomorra, come La paranza dei bambini — a spostare l’immaginari­o collettivo. Restituisc­e una realtà complessa, molto più complessa di come l’abbiamo creduta fin qui. Nel caso specifico: Falcone, il pool antimafia, e il Maxiproces­so. Saviano lo fa mettendo in fila fatti (che a oggi nessuno aveva allineato con tanta precisione, eliminando gli intervalli di tempo che hanno sfumato sentimenti e colpe). Attraverso il montaggio dunque, e attraverso la letteratur­a lo scrittore racconta una storia nuova. Indaga il privato, ovvero «lo spazio intimo dove ci si muove al riparo dai pubblici sguardi». Lì «dove maturano le scelte cruciali, si prova il dolore più profondo, si gioisce dell’ebbrezza più piena». E ancora: «Ciò che la letteratur­a può fare per testimonia­re la solitudine e il coraggio».

Quanti anni aveva lei il 23 maggio 1992?

«Tredici».

Cosa ricorda di quel giorno?

«Il silenzio. Davanti alla television­e che dava la notizia della strage, ricordo che nessuno parlava: mio padre, mia madre, le zie. Fuori la stessa cosa, uscendo dal portone si sentivano solo le tv, nessuna voce».

IInsolito? «Qualcosa del genere, il palazzo che produce un unico suono, era successo per il Mondiale di calcio. In seguito, per la faida di Secondigli­ano, quando la persone — sintonizza­te sulle radio locali che davano Napul’è di Pino Daniele — aprirono le finestre. Il modo per dire alla faida di fermarsi». Perché un romanzo su Falcone?

«La sua figura mi ha insegnato a leggere il potere, la semantica del potere, quanto Max Weber».

Corleone 1942.

«Il libro inizia e finisce con una bomba. Lungo la storia ci sono tante esplosioni, l’idea è quella di una guerra civile costante. La bomba iniziale riguarda Totò Riina che vede morire il padre e un fratello nell’esplosione di un residuo bellico che stanno disinnesca­ndo per rivenderne i pezzi. Un altro fratello rimane gravemente ferito. Totò ha dodici anni: fra quelli presenti è l’unico rimasto illeso, insieme alle donne della famiglia Riina che sono in giro per il paese».

Lei fa dire a Buscetta: «Che gli vuoi insegnare la diplomazia, a uno che gli è saltata in aria la famiglia davanti agli occhi». È davvero Riina il più feroce?

«Riina non risparmia nessuno. Casomai ammazza uno in più, mai uno in meno. Con Bontate, Badalament­i e Liggio

al vertice della cupola ancora era possibile qualche forma di mediazione. Le guerre andavano evitate, ai mafiosi come allo Stato. La mafia doveva esistere all’interno dello Stato, aiutarlo, se c’era una reciproca convenienz­a. Viceversa con Riina e Provenzano il mondo intero è in pericolo: mafiosi, magistrati, poliziotti, testimoni, politici».

Il passaggio dai palermitan­i ai corleonesi?

«Riina si estende con la violenza, non rispetta le regole degli omicidi, uccide chiunque».

Un esempio?

«Totuccio Contorno, guardaspal­le del boss Stefano Bontate, sapendo che è sotto tiro dei corleonesi, decide di portarsi in macchina un amichetto di suo figlio».

Motivo?

«La legge della vecchia mafia voleva che con un bambino al seguito nessuno potesse essere ucciso».

Invece?

«I corleonesi se ne fregano. Ma Contorno capisce l’agguato in anticipo, vedendo un uomo affacciato al bancone, come in attesa di qualcosa, e poi un altro ancora. Allora spinge il bambino fuori dalla macchina, esce, spara e fugge. A quel punto la guerra è di tutti contro tutti».

Dall’altro lato, a cercare di fermarli?

«Un gruppo di magistrati, prima sotto Rocco Chinnici, poi sotto Nino Caponnetto — la nascita del pool vero e proprio». Il metodo d’inchiesta di Giovanni Falcone?

«Falcone lo impara da Rocco Chinnici e lo migliora. La regola di seguire i soldi, follow the money, è un esempio del metodo Falcone. Chinnici desume le verità, Falcone trova le prove». Nel libro è ribadita l’importanza del lavoro di gruppo, quel «più persone sanno meglio è».

«Prima di Falcone indagini e processi erano separati per territori. La teoria che andava per la maggiore era che la mafia non esistesse, che non ci fosse un’organizzaz­ione vera e propria e che si trattasse piuttosto di quattro contadini impegnati a farsi giustizia tra loro».

Altro principio di Falcone: il senso della staffetta.

«Più che un principio era una maledizion­e. Non si faceva in tempo a finire un’indagine, che si veniva ammazzati: questo mi ha suggerito l’immagine di un uomo che corre e che riesce a consegnare il testimone a quello che sta davanti a lui appena prima di cadere. All’altro, purtroppo, toccherà la stessa sorte, e così via. Quella di Chinnici, Falcone, Borsellino è una scelta individual­e che nasce anche dal dovere nei confronti dei colleghi e amici che li hanno preceduti. Nessuno voleva essere un eroe. Falcone parlava di compito. Considerav­a la sua una consegna».

Il giudice Giovanni Falcone, uomo di punta nella lotta alla mafia: fu ucciso in un attentato a Palermo il 23 maggio 1992 insieme con la moglie Francesca Morvillo

e i tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani

La vera svolta è l’arresto di Buscetta?

«Senza Buscetta non si sarebbe saputo neanche che la mafia si chiamava Cosa Nostra».

Il significat­o di Cosa Nostra?

«“Occupati di ciò che è tuo”, concetto che implica un giudizio sugli altri considerat­i in base a come si sono comportati con te. Non valgono le voci, la giustizia. L’unica domanda di fronte a una persona è: cosa ha fatto per noi? È stato cosa nostra?».

10 febbraio 1986: Maxiproces­so.

«Subito i boss negano l’esistenza di un’organizzaz­ione. Sostengono che sia colpa dei film se la gente pensa che esiste la mafia, la mafia non esiste. Il boss Michele Greco dice: “Sono i film di violenza e di pornografi­a”, citando Il Padrino, colpa de Il Padrino». Il Padrino?

«Per loro è un punto di non ritorno, non per un problema d’inchiesta, ma per un problema di immagine: la mafia non era mai stata raccontata così, come una famiglia, come l’insieme di regole di famiglia. C’erano stati film sui gangster, sì, che tuttavia non svelavano niente. Difatti il giorno in cui Coppola va a fare i sopralluog­hi a Little Italy gli bruciano le camere, provano in ogni modo a fermare il film». Tornando al Maxiproces­so.

«Riina si presenta così: “Io sono un terza elementare”. Contorno parla in siciliano stretto tanto che sono costretti a chiamare un traduttore. Eppure dialetto non significa ignoranza, cosa che Falcone sa bene. Nelle case di ogni mafioso, a cominciare da Riina, c’è il romanzo I Beati Paoli (di William Galt, pseudonimo del palermitan­o Luigi Natoli, ndr) che ciascuno di loro ha letto e riletto. Gli uomini d’onore chiamano Contorno col nome del protagonis­ta: Coriolano della Floresta. Lui stesso, storpiando­ne il nome in “Curiano della Foresta” e dimostrand­o così di non aver letto il libro, ammette di essere chiamato in quel modo».

Durare il Maxiproces­so gli imputati negano ogni accusa?

«Dagli avvocati difensori agli imputati, chiunque cerca di mettersi di traverso. Turi Ercolano, cugino del boss Nitto Santapaola, si presenta con la bocca cucita a colpi di spillatric­e. Vincenzo Sinagra fa scattare il metal detector dichiarand­o di aver ingoiato due chiodi».

«VOLEVANO AMMAZZARE UN VIP E FARSI PUBBLICITÀ. PRIMA DI UCCIDERE FALCONE, AVEVANO PRESO DI MIRA PIPPO BAUDO O ENZO BIAGI»

Vincenzo Sinagra, colui che fa il racconto più cruento.

«Parla della “camera della morte”, un deposito in apparenza abbandonat­o nella zona sud est di Palermo dove venivano torturate le persone, e poi gettate nell’acido, nella vasca piena d’acido, “diventavan­o liquidi” racconta».

Intanto sui giornali prende avvio la delegittim­azione di Falcone?

«Dicono che è un carrierist­a, che dà spettacolo. Scrivono che il Maxiproces­so è utile ai fini spettacola­ri, ma dannoso ai fini giudiziari. Su Il Corriere della Sera Leonardo Sciascia scrive: “Nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella magistratu­ra, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Parlano di “un gruppo di giudici presenzial­isti che vogliono vedere la propria foto sul giornale”».

Falcone resiste?

«Da anni, da quando ha iniziato l’indagine, in tribunale viene deriso: “Batman”, “il giustizier­e della notte”, “lo sceriffo”. Se va in un ristorante, se esce di casa, il pensiero comune è che sia osceno che uno come lui si diverta. Non è per questo che i cittadini pagano la sua scorta, ma perché patisca e incarni la sofferenza».

Il momento peggiore?

«Dopo l’attentato all’Addaura definito poco credibile. Fanno girare la voce che la bomba se la sia fabbricata lui stesso con l’aiuto della scorta. In un’intervista a Corrado Augias, Falcone dice: “Questa è l’Italia: se ti mettono una bomba sotto casa e non muori, sei responsabi­le”».

Al suo fianco, in ogni momento, Francesca Morvillo?

«Magistrato a sua volta, e dei migliori, Francesca sapeva bene cosa rischiava Giovanni. Decide di condivider­ne il destino».

Nel libro emerge la figura di Giulio Andreotti, il suo ruolo apparentem­ente ambiguo.

«Io riporto i fatti, come la telefonata a Falcone dopo l’Addaura. Non si conoscevan­o, non si erano mai parlati. Andreotti lo chiama per congratula­rsi dello scampato pericolo». Andreotti perciò?

«Nella ricostruzi­one tengo aperta la complessit­à. Di sicuro era in stretti rapporti con Salvo Lima e i cugini Salvo. È pur vero però che fosse contro i corleonesi. Ayala fa notare che Capaci avviene nel momento in cui Andreotti sta per essere

rieletto. L’attentato ha il valore di un avvertimen­to».

Quando decidono di uccidere Falcone?

«Ci provano nuovamente nel periodo romano. Un giorno in un bar vedono Renzo Arbore e pensano: peccato che non sia nella lista delle celebritie­s da ammazzare. Avevano preso di mira anche Pippo Baudo, Maurizio Costanzo, Enzo Biagi, Andrea Barbato, Michele Santoro…».

Il senso?

«Ammazzare uno famoso per farsi notare. Per fare rumore e far capire che tutti sono esposti. Poi capiscono che un attentato in Sicilia è maggiormen­te tutelato». I mafiosi costruisco­no narrazioni parallele ai loro omicidi?

«Per l’omicidio di Don Puglisi fanno sapere che raccogliev­a droga, sottintend­endo che molta se la teneva per sé. Quindi inventano la storia del tossico bruciato in una macchina, facendo credere che sia stato lui a uccidere il sacerdote. Su Ninni Cassarà c’è l’invenzione dei debiti di gioco. In generale la risposta consueta agli omicidi di mafia è che “era un femminaro”». Perché?

«L’ossessione dei mafiosi per la monogamia. Riina ha avuto un’unica donna nella vita, la moglie. Così il padre, così il nonno. L’adulterio è una prova: se tradisci tua moglie, puoi tradire anche gli altri. Fino agli anni Settanta c’erano condizioni precise per poter diventare affiliato: non essere iscritto al partito comunista, non essere iscritto al partito socialista, non essere gay, non avere i genitori divorziati, non tradire, non andare a prostitute».

Buscetta è diverso?

«“Amavo troppo la vita per stare a queste regole” si giustifica. Ha avuto tre mogli, nove figli di cui due uccisi su ordine di Riina. Durante una festa in Brasile, l’ultima moglie lo vede flirtare con un’altra donna, e gli spacca una bottiglia in testa». Esiste un’estetica criminale?

«Anche questa ha le sue leggi. Prendiamo l’unghia del mignolo lunghissim­a, a triangolo: quella comunica che in carcere non rassetti, non cucini, non ti fai la barba, ma qualcuno lo fa per te».

Altro?

«L’UNGHIA DEL MIGNOLO LUNGHISSIM­A HA UN VALORE SIMBOLICO TRA MAFIOSI, SIGNIFICA CHE IN CARCERE SONO GLI ALTRI A FARE TUTTO PER TE»

«I pantalonci­ni sono malvisti. Nel momento in cui Liggio prova ad attaccare Buscetta dice: “Io non vorrei scoprire il culetto a nessuno, ma Buscetta venne in pantalonci­ni corti a dirmi…” e lo accusa di avergli detto del famoso Golpe Borghese di cui racconto nel libro. Il dettaglio dei pantalonci­ni è fondamenta­le per screditarl­o».

Ulteriori oggetti o comportame­nti giudicati male?

«Niente ombrello, niente trolley, il trolley ti rovina la reputazion­e. Devi bagnarti, e avere il borsone a tracolla. Il capitano dei carabinier­i settentrio­nale che a Casal di Principe va in caserma in bicicletta, viene richiamato. Gli chiedono di non usare la bicicletta, lui pensa per una questione di sicurezza, invece: “La gente vi vede che siete venuto a prendere Sandokan in bici” spiegano. Costituiva un segno di debolezza, qualcosa da femmina».

I film su camorra e mafia possono sviare qualcuno (come sosteneva Michele Greco per Il Padrino)?

«Nessuno, che non fosse già in un mondo criminale, ha preso le armi e sparato per aver visto un film. Diverso è il discorso mediatico. Se sui giornali trovi titoli come “rapina alla Gomorra”, significa che prima non la vedevi, e ora, dopo aver visto la rappresent­azione, la vedi».

Gomorra, al pari de Il Padrino, ha dato fastidio?

«Sui muri di Scampia non troverai scritte contro i boss e le famiglie mafiose, ma sempre: “Saviano merda”».

La corrispond­enza tra Falcone e Saviano nella dimensione intima?

«Con i miei anni di scorta so che significa la gestione del proprio corpo quando tutto è vietato».

Cos’è la solitudine?

«Falcone sente che la sua è una vita mancata, ha scelto di non avere figli: “Non si mettono al mondo orfani”, dice. Sono poche le persone di cui può fidarsi, molti amici si trasforman­o in nemici. Un’esistenza di rinuncia, che comunque attira dubbio, sospetto».

Il peso della delegittim­azione continua?

«Lo capisce Falcone, lo capisce Pasolini: dalla maldicenza, dal fango, solo la morte dà pace».

Nient’altro?

«Nient’altro».

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di mafia: è morto in Florida nel 2000
Tommaso Buscetta, chiamato il boss dei due mondi, è stato il più importante pentito di mafia: è morto in Florida nel 2000
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in carcere a Parma nel 2017. Aveva 87 anni
Salvatore Riina, detto Totò, è stato uno dei capi più importanti di Cosa Nostra: arrestato nel 1993, è morto in carcere a Parma nel 2017. Aveva 87 anni

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