LA GUERRA CHE SPEZZA LA VITA QUOTIDIANA È LA VIOLENZA CHE PIÙ FA MALE
Che cos’è che vi commuove davvero? Che vi rimescola dentro, che mette in movimento i sentimenti di pietà, dolore, affetto, tenerezza? Che vi fa compatire?
Da un paio di mesi abbiamo sotto i nostri occhi l’intera gamma delle immagini che più sciolgono l’animo umano. I conduttori in tv, di solito «dopo una breve pausa pubblicitaria», ci propongono il catalogo degli orrori, avvisandoci che sono scene non adatte alla visione di un pubblico impressionabile. E fanno bene. Poter mostrare ciò che accade è una grande conquista della libertà. Ce l’avessero anche i russi, forse non saremmo a questo punto.
Però non tutto ciò che vedo mi commuove. Talvolta mi infastidisce. Altre volte mi indigna, o mi ripugna. Qualche volta mi lascia addirittura indifferente. Confesso qui una certa durezza di cuore: non sono facile alla commozione. Le scene di distruzione materiale, per esempio, i palazzi crollati, gli asfalti divelti, i blindati sventrati, mi appaiono più che altro come l’effetto di un cataclisma. Sono immagini che mi fanno ragionare sull’assurdità della guerra, e di questa in particolare. Ma non mi commuovono.
Anche le foto più truculente, i corpi straziati sui cui volti applicano i pixel per rispetto alle vittime, mi accapponano sì la pelle, mi spingono a coprirmi la faccia con le mani invocando la misericordia divina. Ma non riesco a immedesimarmi, a immaginarmi lì, steso per terra, a provare ciò che avrà provato quell’uomo o quella donna nel momento fatale.
Non so se faccio bene a raccontarvi questo mio limite. Qualcuno potrebbe ascriverlo al cinismo del giornalista, che in effetti di morti ne ha visti in una carriera cominciata in cronaca, quando sul luogo di una sparatoria o di un incidente ci si arrivava insieme agli inquirenti, e i corpi delle vittime erano ancora caldi.
C’è però una cosa che davvero mi commuove. Ed è ogni immagine, parola, gesto, che testimoni l’irruzione del tragico e dell’imponderabile nella routine quotidiana di una vita. Ho provato una delle più forti ondate di compassione quando ho visto emergere dalla terra nera di Bucha le cinque dita di una mano di donna, le unghie laccate con cura di un rosso accesso: manicure perfetta di Irina Filykina, riconosciuta tra le vittime del tiro a segno dei soldati russi dall’estetista che l’aveva truccata l’ultima volta, in un corso di make-up.
Oppure mi ha commosso fino alle lacrime un video che non conteneva neanche un’immagine violenta; anzi, era quasi buffo perché girato in time-lapse. Una giovane coppia che si sveglia a Kiev la mattina del 24 febbraio e scopre che i russi hanno invaso il Paese. In due ore impacchettano il bimbo appena nato e tutto ciò che possono portare con sé nella fuga verso l’ignoto. L’attimo commosso in cui, abbracciandosi in pigiama, capiscono che la vita è stata loro rubata, ma decidono di ricominciarla daccapo e altrove, è ciò che li rende uguali a noi. Siamo tutti fatti della stessa sostanza dei sogni.
UN’ONDA DI COMPASSIONE MI È ARRIVATA ADDOSSO CON LE UNGHIE LACCATE DI ROSSO CHE EMERGEVANO DALLA TERRA