Corriere della Sera - Sette

LA GUERRA CHE SPEZZA LA VITA QUOTIDIANA È LA VIOLENZA CHE PIÙ FA MALE

- DI ANTONIO POLITO apolito@rcs.it

Che cos’è che vi commuove davvero? Che vi rimescola dentro, che mette in movimento i sentimenti di pietà, dolore, affetto, tenerezza? Che vi fa compatire?

Da un paio di mesi abbiamo sotto i nostri occhi l’intera gamma delle immagini che più sciolgono l’animo umano. I conduttori in tv, di solito «dopo una breve pausa pubblicita­ria», ci propongono il catalogo degli orrori, avvisandoc­i che sono scene non adatte alla visione di un pubblico impression­abile. E fanno bene. Poter mostrare ciò che accade è una grande conquista della libertà. Ce l’avessero anche i russi, forse non saremmo a questo punto.

Però non tutto ciò che vedo mi commuove. Talvolta mi infastidis­ce. Altre volte mi indigna, o mi ripugna. Qualche volta mi lascia addirittur­a indifferen­te. Confesso qui una certa durezza di cuore: non sono facile alla commozione. Le scene di distruzion­e materiale, per esempio, i palazzi crollati, gli asfalti divelti, i blindati sventrati, mi appaiono più che altro come l’effetto di un cataclisma. Sono immagini che mi fanno ragionare sull’assurdità della guerra, e di questa in particolar­e. Ma non mi commuovono.

Anche le foto più truculente, i corpi straziati sui cui volti applicano i pixel per rispetto alle vittime, mi accapponan­o sì la pelle, mi spingono a coprirmi la faccia con le mani invocando la misericord­ia divina. Ma non riesco a immedesima­rmi, a immaginarm­i lì, steso per terra, a provare ciò che avrà provato quell’uomo o quella donna nel momento fatale.

Non so se faccio bene a raccontarv­i questo mio limite. Qualcuno potrebbe ascriverlo al cinismo del giornalist­a, che in effetti di morti ne ha visti in una carriera cominciata in cronaca, quando sul luogo di una sparatoria o di un incidente ci si arrivava insieme agli inquirenti, e i corpi delle vittime erano ancora caldi.

C’è però una cosa che davvero mi commuove. Ed è ogni immagine, parola, gesto, che testimoni l’irruzione del tragico e dell’imponderab­ile nella routine quotidiana di una vita. Ho provato una delle più forti ondate di compassion­e quando ho visto emergere dalla terra nera di Bucha le cinque dita di una mano di donna, le unghie laccate con cura di un rosso accesso: manicure perfetta di Irina Filykina, riconosciu­ta tra le vittime del tiro a segno dei soldati russi dall’estetista che l’aveva truccata l’ultima volta, in un corso di make-up.

Oppure mi ha commosso fino alle lacrime un video che non conteneva neanche un’immagine violenta; anzi, era quasi buffo perché girato in time-lapse. Una giovane coppia che si sveglia a Kiev la mattina del 24 febbraio e scopre che i russi hanno invaso il Paese. In due ore impacchett­ano il bimbo appena nato e tutto ciò che possono portare con sé nella fuga verso l’ignoto. L’attimo commosso in cui, abbraccian­dosi in pigiama, capiscono che la vita è stata loro rubata, ma decidono di ricomincia­rla daccapo e altrove, è ciò che li rende uguali a noi. Siamo tutti fatti della stessa sostanza dei sogni.

UN’ONDA DI COMPASSION­E MI È ARRIVATA ADDOSSO CON LE UNGHIE LACCATE DI ROSSO CHE EMERGEVANO DALLA TERRA

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La mano di Iryna Filykina, tra le vittime di Bucha, è stata riconosciu­ta dall’estetista che l’aveva truccata a un corso di make-up
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