«TI SPERO BENE» POSSO ANCHE DIRLO O SOLO SCRIVERLO?
CARE LETTRICI E CARI LETTORI, nonostante tutto – anche in questo periodo così complicato – vi spero bene. Ma, appunto: si può dire o scrivere «ti/vi spero bene» al posto di «spero che tu stia / che voi stiate bene»? È quello che mi ha domandato un’amica non italiana che da anni ama e parla e scrive la nostra lingua. Avendola vista usare da una persona con cui è in contatto, ha a sua volta riusato la formula in chiusura di una e-mail. Ma il destinatario le ha risposto osservando che è una forma sbagliata, che non esiste e non si è mai sentita. «Forse è una forma colloquiale?», si chiude la sua richiesta di consulenza.
Dovendo rispondere con una definizione, direi: non colloquiale, ma epistolare. «Ti/vi spero bene» è una di quelle forme – o, appunto, formule – tipiche della lingua tradizionalmente usata nelle lettere. Quel «frasario epistolare» (come spesso era chiamato) che veniva codificato da appositi manuali, con lo scopo principale – almeno per le lettere private, familiari – di simulare il tono di un dialogo informale. Fin dalle origini della sua codificazione, infatti, questa «grammatica epistolare» descrive la lettera come una conversazione tra assenti. Lo stile da usare con gli amici deve essere dunque, fin dalla latinità, quello del «sermo cotidianus»: la lingua di tutti i giorni. Scrivendo una lettera, dice Giovanni Mestica nelle sue Istituzioni di letteratura (1882), «conversiamo realmente con la persona, a cui vogliamo indirizzarla: donde essa prende pure quell’andare versatile, ma sempre spigliatissimo».
Saluti d’autore
La formula ellittica «ti/vi spero bene» è attestata in tutta la tradizione epistolare del ’900. La consigliano esplicitamente manuali di inizio secolo come Lettere e scritture per tutti (1922) e di fine secolo come Scrivere oggi: lettere, cartoline, curriculum, bigliettini (1990). E vanta uno straordinario curriculum d’autore, che va da Cadorna («Ti spero bene come sto io», 1915) a Gadda («Vi ricordo sempre e vi spero bene», 1932) a Malaparte («Ti spero bene e scrivimi qualcosa», 1948) a Calvino («Ti spero bene. Un caro saluto», 1964).
Più in generale, appare soprattutto novecentesca la sequenza ti/vi spero seguita da un avverbio («Ti spero meglio», Rebora 1925). Mentre la stessa sequenza seguita da un aggettivo o da un participio – in cui sembra di avvertire più evidente in filigrana una cadenza sintattica latineggiante – è documentata almeno dal ’600, e si trova già in epistolari setteottocenteschi: «Vi spero contento di questa apertura di campagna. Addio» (Metastasio, 1760); «Dirigo questa a Napoli, dove ti spero arrivato e con viaggio prospero» (Leopardi, 1825).
Ancora oggi, cercando tramite Google, si trovano
627 risultati per ti spero bene e 965 per vi spero bene. Segno che la formula sta sopravvivendo o comunque potrebbe sopravvivere anche alla rivoluzione della nuova epistolarità telematica: quella ormai simultanea della posta elettronica, dei messaggini e – a proposito di conversazione a distanza – delle chat (che appunto in inglese significa «chiacchierata»). Ce la farà il costrutto a rimanere in uso? Che dire: lo speriamo bene …
LA FORMULA STA SOPRAVVIVENDO ALLA RIVOLUZIONE DELLA NUOVA EPISTOLARITÀ TELEMATICA