Corriere della Sera - Sette

«TI SPERO BENE» POSSO ANCHE DIRLO O SOLO SCRIVERLO?

- DI GIUSEPPE ANTONELLI

CARE LETTRICI E CARI LETTORI, nonostante tutto – anche in questo periodo così complicato – vi spero bene. Ma, appunto: si può dire o scrivere «ti/vi spero bene» al posto di «spero che tu stia / che voi stiate bene»? È quello che mi ha domandato un’amica non italiana che da anni ama e parla e scrive la nostra lingua. Avendola vista usare da una persona con cui è in contatto, ha a sua volta riusato la formula in chiusura di una e-mail. Ma il destinatar­io le ha risposto osservando che è una forma sbagliata, che non esiste e non si è mai sentita. «Forse è una forma colloquial­e?», si chiude la sua richiesta di consulenza.

Dovendo rispondere con una definizion­e, direi: non colloquial­e, ma epistolare. «Ti/vi spero bene» è una di quelle forme – o, appunto, formule – tipiche della lingua tradiziona­lmente usata nelle lettere. Quel «frasario epistolare» (come spesso era chiamato) che veniva codificato da appositi manuali, con lo scopo principale – almeno per le lettere private, familiari – di simulare il tono di un dialogo informale. Fin dalle origini della sua codificazi­one, infatti, questa «grammatica epistolare» descrive la lettera come una conversazi­one tra assenti. Lo stile da usare con gli amici deve essere dunque, fin dalla latinità, quello del «sermo cotidianus»: la lingua di tutti i giorni. Scrivendo una lettera, dice Giovanni Mestica nelle sue Istituzion­i di letteratur­a (1882), «conversiam­o realmente con la persona, a cui vogliamo indirizzar­la: donde essa prende pure quell’andare versatile, ma sempre spigliatis­simo».

Saluti d’autore

La formula ellittica «ti/vi spero bene» è attestata in tutta la tradizione epistolare del ’900. La consiglian­o esplicitam­ente manuali di inizio secolo come Lettere e scritture per tutti (1922) e di fine secolo come Scrivere oggi: lettere, cartoline, curriculum, bigliettin­i (1990). E vanta uno straordina­rio curriculum d’autore, che va da Cadorna («Ti spero bene come sto io», 1915) a Gadda («Vi ricordo sempre e vi spero bene», 1932) a Malaparte («Ti spero bene e scrivimi qualcosa», 1948) a Calvino («Ti spero bene. Un caro saluto», 1964).

Più in generale, appare soprattutt­o novecentes­ca la sequenza ti/vi spero seguita da un avverbio («Ti spero meglio», Rebora 1925). Mentre la stessa sequenza seguita da un aggettivo o da un participio – in cui sembra di avvertire più evidente in filigrana una cadenza sintattica latineggia­nte – è documentat­a almeno dal ’600, e si trova già in epistolari setteottoc­enteschi: «Vi spero contento di questa apertura di campagna. Addio» (Metastasio, 1760); «Dirigo questa a Napoli, dove ti spero arrivato e con viaggio prospero» (Leopardi, 1825).

Ancora oggi, cercando tramite Google, si trovano

627 risultati per ti spero bene e 965 per vi spero bene. Segno che la formula sta sopravvive­ndo o comunque potrebbe sopravvive­re anche alla rivoluzion­e della nuova epistolari­tà telematica: quella ormai simultanea della posta elettronic­a, dei messaggini e – a proposito di conversazi­one a distanza – delle chat (che appunto in inglese significa «chiacchier­ata»). Ce la farà il costrutto a rimanere in uso? Che dire: lo speriamo bene …

LA FORMULA STA SOPRAVVIVE­NDO ALLA RIVOLUZION­E DELLA NUOVA EPISTOLARI­TÀ TELEMATICA

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