Corriere della Sera - Sette

«IL PRIMO CONCERTO A 5 ANNI: SO COS’È LA SOLITUDINE, ORA INSEGNO AI MUSICISTI A NON TRASCURARE LE EMOZIONI»

- DI ILARIA GASPARI

Pianista di fama internazio­nale, ha creato un laboratori­o per aiutare i giovani. «Il cammino dell’artista richiede un’enorme dedizione, l’emotività è tutto, per suonare si usa il corpo intero». E sulla malattia del compagno, lo scrittore Alessandro Baricco: «Sono stata sopraffatt­a da un’angoscia inaspettat­a»

loria Campaner è pianista di fama internazio­nale; il suo prossimo disco, dedicato a Beethoven (inciso con l’orchestra Canova diretta da Enrico Saverio Pagano) uscirà presto per Sony Music. Il 5 marzo scorso, dopo aver suonato nell’Aula del Senato a un evento trasmesso in diretta su Rai1, ha parlato del diritto, che dovremmo concederci, «di aver paura».

Campaner suona dall’età di quattro anni, e mentre diventava la pianista che è oggi, ha inventato C#/SeeSharp: un laboratori­o che aiuta i giovani musicisti a non trascurare la loro vita emotiva. Ma non si rivolge solo ad alunne e alunni dei Conservato­ri: sono previsti incontri aperti a un pubblico eterogeneo, a chiunque abbia il desiderio di esplorare la gioia dell’arte. Il suo sogno, mi dice Campaner, è «mostrare quanto l’arte sia trasversal­e, rendendola accessibil­e al pubblico», come farà a giugno con il

Gche ha organizzat­o a villa Carlotta, Fiesta!: tre giorni di incontri e lezioni immersi nella natura, sul lago di Como. Come gli atleti, i musicisti sono chiamati a coltivare una costanza che sfiora la devozione. L’esigenza di occuparsi delle emozioni nasce dalla sua esperienza?

«È bello associare la musica alla gioia: per me, da bambina, è stato così. Però il cammino dell’artista – lo studio, il sacrificio necessario a trovare la propria voce… – richiede una dedizione enorme. E l’emotività è tutto, quando cerchi di esprimerti attraverso qualcosa che, in fondo, è solo aria che vibra. Per suonare si usa il corpo intero, perché la vibrazione della musica arriva da lì: è una ricerca quotidiana, la ripetizion­e virtuosa di un gesto. Ma se, nel corso di questa ricerca, non curi la tua vita emotiva come si cura una piantina, capita che le emozioni ti travolgano. Una musicista ha molte occasioni per stare in scena, quindi si rende conto più facilmente di altri di quanto la vita somigli a un palcosceni­co. E, in quanto artista, è anche più vulnerabil­e: io ho cominciato a suonare a nemmeno quattro anni, a cinque ho vinto il primo concorso e ho fatto il mio primo concerto, sola davanti al pubblico – e non andavo neanche alle elementari! Non sapevo scrivere, sapevo leggere solo le note». Quando ha iniziato, suonare era un gioco?

«All’inizio sì: giocare e suonare sono la stessa parola in tante lingue, è una delle grandi bellezze della musica. Ma fai presto a renderti conto che il talento è qualcosa che ti mette oltre un confine. Ho preso le prime lezioni di musica con la mia vicina di casa, avevamo tre anni ed eravamo amiche inseparabi­li: lei non voleva saperne di andare alla scuola di musica, io non vedevo l’ora. L’insegnante di quella piccola scuola è diventata la mia prima maestra di piano. Ha insistito che continuass­i perché si era accorta di qualcosa: questo qualcosa, che chiamiamo talento, è solo un’inclinafes­tival

zione per cui siamo più portati di qualcun altro in una certa attività… C’è chi ce l’ha per la matematica, chi per la scrittura. Io ero così piccola che nemmeno me ne sono accorta. Ma, al di là del confine del talento, che ne è di tutto il resto? Di tutta quella vita, di quello che provi? Nutrire il talento è importante; ma trovo importante anche ricordarmi che sono un tutt’uno, che ho la responsabi­lità della mia persona intera. Altrimenti, poi, è la vita che sceglie per noi. Per esempio, provi a incrociare le braccia: quale mette sopra?

Il sinistro.

«Anch’io! E fare il contrario — ci provi! — quanto è difficile? È solo un esempio di un’abitudine corporea, però è importante accorgersi delle cose. Di quante cose non ci rendiamo conto, perché siamo tutti presi a guardare avanti, sempre avanti? SeeSharp vuol dire vedere oltre, vederci chiaro… Ma è anche una nota che cresce. C#, ovvero do diesis: una nota alterata verso l’alto, e tutta questa tensione per me è bella e utile».

C’è stato un momento, durante la sua crescita, in cui si è resa conto di quanto impegno le richiedeva il suo talento?

«Suonare uno strumento musicale a livello concertist­ico, farne la propria vita, non un hobby, non richiede solo molte ore di studio: è una specie di allenament­o fisico agonistico, in cui è coinvolto ogni singolo muscolo. Quasi un esercizio aerobico. Per quanto io abbia cercato sempre di impegnarmi a scuola, per me il più grande impegno è sempre stato quello che mi richiedeva la musica: imparare a memoria pagine e pagine di partiture, controllar­e il minimo movimento. Il ruolo dell’interprete è importanti­ssimo, permette alle persone di sentire la musica; ma devi ricordarti che non è una tua creazione, che tu sei il tramite. Devi metterti al servizio della musica che qualcun altro ha scritto: una forma di devozione, in effetti». Che genere di rapporto si sviluppa fra interprete e compositor­e?

«Si crea un senso di vicinanza anche fisica: lo studio dell’opera di un artista, quando richiede tanto tempo, tanta energia e precisione, ti permette di sentirlo, quasi di vederlo; respiri e hai la sensazione di sentire il gusto dell’aria come deve averlo percepito lui. Stare per anni — anni fatti di mesi, di giorni, ma soprattutt­o di tantissime ore che si sommano — a contatto con la musica scritta da qualcun altro significa avvicinars­i a quel qualcuno accorciand­o sempre la distanza tra quello che lui — forse — si augurava di tramandare, e il mondo: perché tu in quel momento sei un ponte, e nella musica non puoi mentire in niente. Nella vita possiamo nasconderc­i, ma quello che suoni è più onesto di qualunque frase tu possa dire o non dire. Per far vivere la musica scritta da altri, la devi far passare attraverso di te: il che la rende diversa da come l’avrà suonata Chopin, o Beethoven mentre la componeva; diversa anche dal modo in cui altre/altri l’hanno incisa. Da interprete, metti tutto a

disposizio­ne della musica: tutti i tuoi pensieri più minuti, fino alle corde che sono il prolungame­nto del tuo braccio, dei tuoi muscoli. Pensi ai pianoforti che vengono usati per le audizioni: li suonano tantissime mani, e si sente ogni volta un suono diverso, anche se la sala rimane la stessa, il piano è lo stesso. È il suono che cambia: a seconda di come ognuno lo tocca, come lo sente, come se lo immagina prima ancora di iniziare».

Mi sembra una persona molto aperta. Come affronta la solitudine che il suo lavoro richiede?

«Ho passato un’infinità di tempo da sola, fin da bambina, eppure per carattere sono, in effetti, molto estroversa, sono un’entusiasta. Ho avuto la fortuna di suonare a volte in ensemble, di fare tournée con altri musicisti: però quando sei solista, la solitudine è già lì, nel nome. C’è scritto anche sul camerino: camerino del solista. Penso, in ogni caso, che sgomenti più la paura della solitudine, che la solitudine stessa: perché poi non sono mai davvero sola, sono con le mie idee, la mia vita, il mio corpo, la mia immaginazi­one… Se ti capita una vita così, come la mia, devi sforzarti di accettarlo prima che puoi, e approfitta­re di tutti i momenti in cui puoi stare con gli altri: io magari anziché venti ore da passare con i miei amici ne avevo solo due, ma quel tempo cercavo di abitarlo nel miglior modo possibile. Questo allenament­o dà una capacità importanti­ssima, di adattarsi al mondo: impari a essere a casa dove vuoi essere a casa. Puoi sentirti a casa in una stanza d’albergo tutta vuota. Senti che sei dentro il viaggio, dentro la tua vita, che stai vivendo; infatti adoro vivere in albergo, adoro che sia sempre diverso, perché tanto poi so che troverò il modo per stare bene in un posto anche tutto nuovo: ho le mie cose, che mi porto ovunque, e che mi fanno stare bene. E sono tutte cose che mi arrivano, proprio, dalla solitudine. È dentro la solitudine, che trovi il tuo spazio».

Come si sente rispetto allo sguardo degli altri, quando suona?

«Il problema è la perfezione che tutti si aspettano, a cui tutti sono abituati dai dischi, dalle registrazi­oni: ma sul palco è diverso. Il concerto dal vivo, la cosa più importante che ci sia nella musica, ha bisogno del pubblico: non esiste concerto senza pubblico. È per questo che mi sento sfinita dopo un concerto: al pubblico do tutto quello che ho, tanto che a volte poi mi sembra di non riuscire quasi a respirare, faccio fatica anche a firmare un autografo. Quando suono è come se mi isolassi, vado in una specie di trance, il che può anche essere pericoloso perché poi arriva il momento in cui ti tocca atterrare sul presente, e puoi atterrare facendo un errore, o perdendo per un istante la concentraz­ione… In ogni caso, il concerto è diverso dalla radio, dallo streaming: tu sei lì con chi ti ascolta. Insieme. Tu sei lì e sei tutto quello che fai, tutti i sorrisi che affiorano, tutte le lacrime che non sai più se siano di gioia o di dolore. Sei tutto, e tutto fa parte di questo sentire che passa agli altri, non solo dai suoni, ma da ogni piccolo gesto».

Il suo discorso sulla paura ha fatto vibrare molte corde. Di recente ha dovuto affrontare una grande paura per la salute del suo compagno, Alessandro Baricco, che ha rivelato di avere una leucemia qualche giorno prima di sottoporsi a un trapianto di midollo, che pare essere andato a buon fine. Come si sente?

«Sono stata sopraffatt­a da un’angoscia inaspettat­a, lo smarriment­o assoluto di fronte alla malattia di una persona cara. Che non è neanche una malattia tua: sei in balia di quello che succede a qualcun altro. Una scarica emotiva colossale. Ero fuori dalla scena, non certo sul palco, ma ho ricevuto una grande attenzione mediatica. Questa volta però non c’era di mezzo nessuna performanc­e, si trattava solo di trovare un modo per stare vicina a una persona che amo, con tutte le restrizion­i imposte dalla sua condizione e inasprite dalla pandemia; è stato un grande allenament­o all’attesa, alla pazienza. E alla compassion­e, anche quando fisicament­e eravamo separati. Ho sentito molto la forza e il peso di questa parola — compassion­e —, che ti allena a intonarti al ritmo e al passo di un altro, gentilment­e, con umiltà. Ho cercato di smorzare le emozioni forti che arrivavano dall’esterno; mi sono anche dovuta allontanar­e, per un po’, dalla musica, dall’eccitazion­e che ne deriva, dalla concentraz­ione a volte esagerata per la ripetizion­e continua del gesto musicale. Quando non c’era bisogno di me in ospedale, mi sono concessa pochi giorni in montagna, nella natura, lontana. Non credo che sarei riuscita a sostenere tutto, la paura, la mancanza, l’inaspettat­o quotidiano, se non avessi avuto la luce, le Alpi, il respiro. Lì mi sono sentita accolta, sono riuscita a gioire di ogni piccolo migliorame­nto».

Cosa si augura per il futuro?

«Mi auguro di avere un cuore buono: di ricordarme­lo sempre, anche nella stanchezza».

«IL PROBLEMA È LA PERFEZIONE CHE TUTTI SI ASPETTANO, ABITUATI DAI DISCHI, DALLE REGISTRAZI­ONI: MA SUL PALCO È DIVERSO»

 ?? ?? Gloria Campaner, nata a Jesolo nel 1986, diplomata al conservato­rio di Udine, è pianista di fama internazio­nale
Gloria Campaner, nata a Jesolo nel 1986, diplomata al conservato­rio di Udine, è pianista di fama internazio­nale
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Baricco: vivono sulle colline torinesi
Gloria Campaner con il compagno Alessandro Baricco: vivono sulle colline torinesi

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