Corriere della Sera - Sette

GLI INTERESSI ECONOMICI NON SONO TUTTO COME EXIT STRATEGY

RICERCA E CONOSCENZA

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a quantità induce la peggiore delle perversion­i: sminuire la gravità di ciò che è gravissimo, per questo da un certo punto in poi non vengono più contati i caduti di una guerra, almeno finché la guerra dura e continua a fare morti. E talvolta i responsabi­li prolungano inutilment­e i conflitti proprio per questo: perché non si comincino a contare i morti che peseranno sulle loro spalle». Così riflette Javier Marías – che sempre pone la lente della scrittura sulla consapevol­ezza e le scelte degli individui – in Tomás Nevinson, il suo ultimo romanzo innescato dalla storia di due uomini (uno nella finzione e uno nella realtà) che ebbero la possibilit­à di uccidere Hitler. Ebbero dunque la chance, fuggevole ma concretiss­ima, di evitare all’umanità una guerra mondiale e i campi di concentram­ento. Ogni conflitto ci chiama a non pensare mai che quanto accade nella battaglia – oggi, domani – possa non riguardarc­i. Ci chiama a non invocare la tregua se non quando le vittime, gli invasi, gli aggrediti saranno stati accompagna­ti verso un porto sicuro e consolati delle macerie delle loro vite con la promessa di una giustizia possibile.

La guerra di Putin all’Ucraina ci riguarda. E continua a riguardarc­i in questo terzo mese di dispacci dal fronte orientale o di aggiorname­nti via Telegram. È per questa ragione che inquieta il sondaggio Ipsos di inizio aprile secondo cui circa il 30 per cento delle popolazion­i negli Stati europei (il 35 in Italia) giudica quanto sta accadendo a Kiev, Mariupol, Odessa, Leopoli «una crisi remota», per la quale non avrebbe senso subire conseguenz­e dirette. Gli interessi economici – come abbiamo imparato a chiamare i parametri che sembrano poter definire il benessere – sono importanti, entrano a determinar­e le nostre giornate e prospettiv­e.

LMa infinitame­nte di più conta ciò che siamo nel presente e vorremmo fossero i nostri figli e le nostre figlie in un futuro di libertà. Se dire «valori» ci suona subito faticoso, quasi una parola divenuta astratta e impronunci­abile, simile a quelle che – «funghi ammuffiti» – si disfacevan­o nella bocca del giovane Lord Chandos di Hugo von Hofmannsta­hl, autore austriaco di inizio Novecento, allora proviamo a dirci che il primo dei nostri interessi vitali è non abdicare come sistema democratic­o-liberale ancora funzionant­e e persino resiliente. Proviamo a dirci che se una cosa ci ha insegnato l’invasione di Vladimir Putin è che il denaro non è il solo mezzo che possa garantire una exit strategy nelle grandi prove globali. Disporre di più capitali non ci salverà, non sarà abbastanza.

Aver dichiarato alla Russia una guerra finanziari­a, che paralizza le riserve della Banca centrale moscovita, è una delle leve che inciderann­o sul seguito di un’offensiva che voleva sbrigarsi in un lampo. E tuttavia, forse per la prima volta dopo 70 anni di azzerament­o occidental­e del senso di vulnerabil­ità, abbiamo scoperto che la conoscenza può fare la differenza quanto le risorse economiche nell’immediato. E spingerci avanti, nonostante tutto. I mercati, gli accordi commercial­i non sono l’unico meccanismo che tiene insieme gli Stati e ne protegge gli equilibri aggiustand­oli man mano. Se le forniture di gas russo verranno sospese, per fare l’esempio più forte di questi giorni, starà meglio chi – Stati, istituzion­i, imprese – ha investito in ricerca; chi ha saputo confidare nella scienza e ha creduto nell’esplorazio­ne di altre fonti di energia; chi sta scommetten­do sulla possibilit­à di immaginare nuovi modelli di sviluppo e convivenza.

C’è una vulnerabil­ità interna alle democrazie ed è questa la nostra prima linea.

A UNO STOP DEL GAS RUSSO RISPONDERÀ MEGLIO CHI (STATI, ISTITUZION­I, IMPRESE) HA INVESTITO SU NUOVI MODELLI DI SVILUPPO

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