QUANDO BATTIATO FUGGÌ NELLA VILLA SOTTO L’ETNA «IL SUCCESSO MI SPAVENTÒ»
«Mi alzo molto presto e appena apro la porta finestra ogni mattina nel luogo dove abito arriva il profumo delle rose e dei gelsomini, che per me sono il linguaggio dell’esistenza. Ringrazio ogni giorno il privilegio di questa esperienza perché la natura ancora oggi, con tutte le schifezze che ci stanno annullando, è rimasta intatta nella sacralità: cioè è l’unica realtà oggi che ci fa risentire, come fossimo nel primordiale, la bellezza dell’esistenza». Quel luogo, che Franco Battiato raccontava con composto incanto ad Alain Elkann era la sua casa, Villa Grazia, a Milo ai piedi dell’Etna, dove era tornato a vivere a fine Anni 80 dopo il periodo intenso di Milano e in giro per il mondo, e che con le delizie del suo giardino, noccioli, aranci, mandarini, fiori, palme e tanto altro, rischiarava le sue giornate e accompagnava le sue meditazioni sulla terrazza.
Del resto la fuga dal successo aveva determinato le svolte della sua vita e le ere della sua musica. Come quando dai primi successi aveva virato verso la musica sperimentale e la collaborazione con Gianni Sassi, o quando anche da lì si era allontanato per scommettere su un pop d’autore. «Dopo l’uscita de L’era del cinghiale bianco, a 35 anni, realizzai che qualcosa era definitivamente cambiato. A un concerto a San Giovanni Valdarno vennero in 20 mila. Sentii uno strano boato. Con il successo vennero i fan: una notte in albergo mi svegliai e trovai che avevano fatto entrare gente nella mia stanza per vedermi dormire. Volevo smettere». C’era qualcosa di “inquietante” in quel successo che lo tormentava e allora alternava periodi di studio, di lontananza, di sottrazione per tornare poi a stupire prima di tutto se stesso. Un milione di copie per l’ album La voce del padrone, con dentro bazzecole come Centro di gravità permanente, Bandiera bianca, Cuccurucucù, musica da non stancarsi mai e frasi come «Cantami o diva dei pellerossa americani le gesta erotiche di squaw pelle di luna». O «Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro. Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali».
Percorreva un po’ guascone i sentieri della cultura a 360 gradi, mischiando tutto, serietà e ironia, citazioni coltissime e nonsense, atmosfere musicali dal mondo e la fisiognomica aristotelica, Proust, Fleur Jaeggy Leopardi e Sun Tzu, il suo amato visionario Gurdjieff e l’amico poeta Sgalambro, con cui cocreò La Cura. Eccentrico sempre, non in senso estetico, perché si vestiva ormai perlopiù come un impiegato di banca, se non fosse per quel codino grigio arrotolato sulla nuca, ma in quanto incasellabile rispetto a musica e parole, era sempre altrove, avanti o indietro nel passato, spiazzantemente oltre. Difficile trovare un centro di gravità permanente nella sterminata ed erratica produzione musical-intellettuale di Battiato, se non in quell’autoreferenzialità allargata a un percorso spirituale fatto di letture, impegno, meditazione: «Io sono un mistico». Come Gaber, suo amico e scopritore che lo invitò per la prima volta in tv nel 1967 a Diamoci del tu, era fuori schemi ideologici, anche se nelle scelte di fondo sapeva bene stare dalla parte del cittadino consapevole: basta Inneres auge a ricordarlo. «Non sono né di destra né di sinistra, sto in alto. E sono per l’essere umano e per gli esseri umani» ha detto nel 2010 a Lilli Gruber. E così fino all’ultimo, quando per trasmigrare la sua anima lasciò la sua Milo, il 18 maggio 2021, accompagnato da cordoglio collettivo.
«UNA NOTTE IN ALBERGO MI SVEGLIAI E TROVAI CHE AVEVANO FATTO ENTRARE GENTE NELLA MIA STANZA PER VEDERMI DORMIRE»