«MACRONARE» O «MERKELARE» DUE DEONIMICI EUROPEI (MA QUANTO DURERANNO?)
NEGLI ULTIMI MESI da più parti è stato fatto, parlando delle politiche comuni europee, un parallelo tra Macron e Merkel. Di là da ogni considerazione politica, è curioso che ad accomunarli ci siano anche due neologismi circolati a quasi sette anni di distanza. Qualche settimana fa – dopo l’inizio dell’invasione russa, ma proprio prima del ballottaggio decisivo per le elezioni presidenziali in Francia – si è diffusa in rete la notizia che in Ucraina sarebbe stato coniato il verbo macronete. Il 13 aprile, in un breve articolo, anche Le Figaro raccontava di questa «nuova parola (non lusinghiera) venuta dall’Ucraina», equivalente al francese macroner – e dunque all’italiano macronare – con il significato di «mostrare preoccupazione per una situazione, ma non fare nulla». Il motivo sarebbe che «gli ucraini rimproverano a Emmanuel Macron le sue promesse e la sua inazione nella guerra contro Putin».
Erano invece i primi di agosto del 2015, quando si diffuse la notizia che nel concorso indetto dall’editore tedesco Langenscheidt per eleggere la parola più usata dai giovani risultava in testa il verbo merkeln. Verbo tratto con ogni evidenza dal cognome della cancelliera Angela Merkel e traducibile in italiano come merkelare .Il significato? «Non essere in grado di prendere decisioni, di esprimere un parere», e infatti – continuava la definizione – «può essere utilizzato per descrivere qualcuno che non si pronuncia mai e rimane lì, senza far niente».
Sic transit gloria verbi
Da noi, Il Giornale riportava la notizia abbinandola subito (presidente del Consiglio era Matteo Renzi) al verbo «Renzare. Consiste nel vantarsi in continuazione di aver realizzato riforme che non esistono». Dieci anni prima, un articolo della Stampa titolava: «Berlusconare o bertinottare, ecco il dilemma». Il verbo berlusconare veniva segnalato nel 2008 anche al sito Slangopedia, come presunta espressione del linguaggio giovanile: «Dire e fantasticare cose impossibili».
In italiano – tuttavia – le coniazioni verbali più comuni sono, per questo tipo di significato, in -eggiare. Facile trovare, nei giornali degli anni scorsi, frasi come «Maria Elena Boschi renzeggia» o «Celentano grilleggia» o «troppo spesso si finisce per salvineggiare» (è buffo che salvineggiare fosse già usato secoli addietro in riferimento al letterato Anton Maria Salvini, morto nel 1729). Rimanendo nell’ambito della politica, si può risalire almeno fino ai vari mussolineggiare (attestato già nel 1923) o – più avanti – togliatteggiare (1953), fino ai tardonovecenteschi veltroneggiare o – rieccoci – berlusconeggiare (entrambi dal 1995).
Le parole tratte da nomi propri vengono chiamate, in termini tecnici, deonimici o deonomastici. Per farsi un’idea di quanto il meccanismo sia comune nella politica nostrana, basta sfogliare i due dizionari di neologismi curati per Treccani da Gianni Adamo e Valeria Della Valle nel 2003 e nel 2018. Il fatto, però, è che se non diventano proverbiali (se non entrano cioè nel meccanismo dell’antonomasia, per cui ancora adesso si può ciceroneggiare), i neologismi derivati da nomi e cognomi sono per loro stessa natura parole effimere: scompaiono presto, insieme alla fama dei personaggi in questione. Sic transit gloria verbi.
VERBI MODELLATI SUI NOMI DEI DUE LEADER COME DA NOI «RENZEGGIARE», «GRILLEGGIARE» O «BERLUSCONEGGIARE»