LA VINCITRICE DEL LEONE D’ORO SOGNA UN MUSEO DELLE VOCI BLACK «RACCOLGO DISCHI E CASSETTE»
Ha ottenuto il riconoscimento per il miglior padiglione (Gran Bretagna) con un’installazione immersiva in cui valorizza i virtuosismi dei performer. «Gli archivi ci consentono di verificare i fatti, sono un’arma. Ma non ho i soldi per il terreno»
Lo zampino, nella Biennale di Venezia, lo aveva già messo nel 2015, invitata alla mostra internazionale del curatore Okwui Enwezor, All the World’s Futures. Ma quest’anno, il Leone d’oro è suo, per la miglior partecipazione nazionale, quella della Gran Bretagna, con Feeling Her Way. Sonia Boyce (nata a Londra nel 1962, di origini afro-caraibiche, di cui la Tate acquisì nel 1985 Missionary Position II, prima opera di un artista di colore a entrare in collezione) con questo premio corona anche la sua Devotional collection, un progetto di ricerca lungo decenni. Entrando nel suo padiglione ai Giardini si è avvolti da visioni sonore, vocalizzi, canti a cappella, improvvisazioni come in una jam session, alla quale partecipano cinque note cantanti perfomer, tra cui Poppy Ajudha.
Qui tutto è incentrato sul potere della voce, dell’ascolto e del ricordo. Temi ricorrenti nella sua pratica.
«Per me quest’opera riguarda l’ascolto profondo, occorre apprezzare ciò che una persona dice. Quel progetto risale al 1999, fui invitata a Liverpool, nota città della musica, a lavorare con un gruppo di donne, le Black Sisters, e da loro volevo sapere quali cantanti di colore conoscessero. Durante la prima sessione di lavoro nessuna di loro riusciva a darmi un nome. La figura di Shirley Bassey aveva occupato tutta la loro vita, con quel motivo ricorrente dal film Goldfinger, io ero stata a un suo concerto live. Una voce fantastica, che ti strappa il cuore. Quel progetto doveva durare solo 6 mesi e poi via via è cresciuto, cresciuto, cresciuto. Per loro fu l’inizio di una ricerca, cominciarono a chiedere ad amici e parenti quali erano questi cantanti di colore, così è diventata una pratica di sapere collettivo. Alla fine di quei sei mesi di lavoro emersero 46 nomi di cantanti black. Adesso sono già 350, risalenti fino alla metà del XIX secolo».
Da noi, sulle scene operistiche della Scala trionfava la sublime Jessye Norman, soprano. Mi pare che il suo intento sia realizzare un archivio.
«Sì, raccolgo memorabilia, cassette, dischi, biografie. La mia più grande ambizione sarebbe quella di costruire un museo per questo progetto, ma devo comprare un terreno, e non ho nemmeno due penny! E poi mi sono resa conto che attorno alla musica c’era stata molta produzione grafica. In quella sala dove ci sono i memorabilia si trovano dei vinili ma anche le copertine, ossia materiali stampati. Ci sono quindi molti strati in questa mia opera. C’è un filosofo francese che amo molto, Jacques Derrida. La fotografia è un imprint della memoria. Derrida spiega le ragioni per cui costruire un archivio. Innanzitutto è riconoscere che qualcosa è accaduto. Ed è anche un’arma di legge, un archivio. E poi questi non devono essere qualcosa di morto, ma da mantenere vivo. Però siccome sono fatti anche di scatole, il filosofo ci rammenta che si tende a dimenticarne il contenuto. Gli archivi ci consentono di verificare i fatti. Sono una