Corriere della Sera - Sette

LA VINCITRICE DEL LEONE D’ORO SOGNA UN MUSEO DELLE VOCI BLACK «RACCOLGO DISCHI E CASSETTE»

- DI FRANCESCA PINI

Ha ottenuto il riconoscim­ento per il miglior padiglione (Gran Bretagna) con un’installazi­one immersiva in cui valorizza i virtuosism­i dei performer. «Gli archivi ci consentono di verificare i fatti, sono un’arma. Ma non ho i soldi per il terreno»

Lo zampino, nella Biennale di Venezia, lo aveva già messo nel 2015, invitata alla mostra internazio­nale del curatore Okwui Enwezor, All the World’s Futures. Ma quest’anno, il Leone d’oro è suo, per la miglior partecipaz­ione nazionale, quella della Gran Bretagna, con Feeling Her Way. Sonia Boyce (nata a Londra nel 1962, di origini afro-caraibiche, di cui la Tate acquisì nel 1985 Missionary Position II, prima opera di un artista di colore a entrare in collezione) con questo premio corona anche la sua Devotional collection, un progetto di ricerca lungo decenni. Entrando nel suo padiglione ai Giardini si è avvolti da visioni sonore, vocalizzi, canti a cappella, improvvisa­zioni come in una jam session, alla quale partecipan­o cinque note cantanti perfomer, tra cui Poppy Ajudha.

Qui tutto è incentrato sul potere della voce, dell’ascolto e del ricordo. Temi ricorrenti nella sua pratica.

«Per me quest’opera riguarda l’ascolto profondo, occorre apprezzare ciò che una persona dice. Quel progetto risale al 1999, fui invitata a Liverpool, nota città della musica, a lavorare con un gruppo di donne, le Black Sisters, e da loro volevo sapere quali cantanti di colore conoscesse­ro. Durante la prima sessione di lavoro nessuna di loro riusciva a darmi un nome. La figura di Shirley Bassey aveva occupato tutta la loro vita, con quel motivo ricorrente dal film Goldfinger, io ero stata a un suo concerto live. Una voce fantastica, che ti strappa il cuore. Quel progetto doveva durare solo 6 mesi e poi via via è cresciuto, cresciuto, cresciuto. Per loro fu l’inizio di una ricerca, cominciaro­no a chiedere ad amici e parenti quali erano questi cantanti di colore, così è diventata una pratica di sapere collettivo. Alla fine di quei sei mesi di lavoro emersero 46 nomi di cantanti black. Adesso sono già 350, risalenti fino alla metà del XIX secolo».

Da noi, sulle scene operistich­e della Scala trionfava la sublime Jessye Norman, soprano. Mi pare che il suo intento sia realizzare un archivio.

«Sì, raccolgo memorabili­a, cassette, dischi, biografie. La mia più grande ambizione sarebbe quella di costruire un museo per questo progetto, ma devo comprare un terreno, e non ho nemmeno due penny! E poi mi sono resa conto che attorno alla musica c’era stata molta produzione grafica. In quella sala dove ci sono i memorabili­a si trovano dei vinili ma anche le copertine, ossia materiali stampati. Ci sono quindi molti strati in questa mia opera. C’è un filosofo francese che amo molto, Jacques Derrida. La fotografia è un imprint della memoria. Derrida spiega le ragioni per cui costruire un archivio. Innanzitut­to è riconoscer­e che qualcosa è accaduto. Ed è anche un’arma di legge, un archivio. E poi questi non devono essere qualcosa di morto, ma da mantenere vivo. Però siccome sono fatti anche di scatole, il filosofo ci rammenta che si tende a dimenticar­ne il contenuto. Gli archivi ci consentono di verificare i fatti. Sono una

 ?? ?? Il Padiglione della Gran Bretagna ai Giardini della Biennale di Venezia, di cui il British Council è responsabi­le dal 1937.
Nella pagina accanto, Sonia Boyce davanti alla sua opera Feeling Her Way
Il Padiglione della Gran Bretagna ai Giardini della Biennale di Venezia, di cui il British Council è responsabi­le dal 1937. Nella pagina accanto, Sonia Boyce davanti alla sua opera Feeling Her Way

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