STARE ZITTI NON È PIÙ PERMESSO SEMBRI INDIFFERENTE MA IL SILENZIO A VOLTE PUÒ UNIRE
Alle medie inventai una serie di personaggi femminili che interpretavo quotidianamente davanti a mio fratello, più piccolo di me, per farlo ridere. C’era quella con il fidanzato cagionevole e ipocondriaco, ossessionata dai suoi assurdi malanni, c’era la zotica, che parlava pulendosi i denti con la lingua e grattandosi il sedere, c’era la capricciosa
sempre in lacrime, e quella che gli ripeteva di continuo, con enfasi: ma tu ti devi sfogare, devi tirare tutto fuori, dobbiamo parlare, se vogliamo un mondo migliore – mentre mio fratello scappava per non essere tormentato da lei.
Ho ripensato a quella caricatura con cui facevo sarcasmo già a undici anni, in questi giorni in cui riflettevo sul nostro mancato diritto al silenzio. Mi sono sempre considerata predisposta alla condivisione, forse perché sono socievole, chiacchierona. Eppure, a ripercorrere la mia vita, mi accorgo che sui dolori più grandi ho sempre taciuto. Li ho confessati agli analisti, ma soprattutto ho lasciato che sedimentassero dentro di me e si trasformassero, senza che lo decidessi, in scrittura. Ho smesso presto di affidarli ai diari, ho concesso loro di avvelenare il mio corpo, il mio immaginario, ho aspettato che diventassero sintassi quando quella sintassi sembrava raccontare altro, altri, non me. Una storia non mia.
Non so se è colpa dei social media, che ci hanno abituati a esprimerci costantemente, e su ogni argomento, tanto che se non dici la tua sul fatto del giorno sei accusato di indifferenza: nessuno crede che tu preferisca leggere chi è più competente, perché il tuo parere senza documentazione non ha valore.
Non so se è colpa del bisogno di parlare senza sosta, ovunque, ma ho l’impressione che non ci sia più permesso di tacere. Anche quando non sappiamo bene che cosa dire, quando un evento ci ha sbaragliati, quando il nostro dolore è magma, groviglio, e addentrarvisi, districarlo, è un lavoro faticoso, che implica molto tempo, anche quando parlare non ci è utile, anzi è peggio, lo abbiamo provato sulla nostra pelle: siamo troppo nudi, e una frase distratta, sbrigativa, può ustionarci – anche allora pare che il mondo ci imponga la parola, si offenda se tacciamo, giudichi il nostro silenzio come una forma di rifiuto, di ostilità.
La mia più vecchia amica – la conosco dall’87 – per Pasqua non ha preteso una chiamata che non desideravo, ma mi ha inviato un mazzo di fiori. Rose, come me, che mi chiamo Rosa perché Rosa si chiamava mia nonna, e margherite, perché Margherita è il suo secondo nome, sconosciuto a quasi tutti: quello della sua, di nonna. Guardando il vaso che le conteneva, illuminato dal sole, mi sono commossa. Eravamo vicine, lei e io, pure quella volta. Pure in silenzio.
SUI DOLORI PIÙ GRANDI DELLA VITA IO HO SEMPRE TACIUTO, HO LASCIATO CHE SI SEDIMENTASSERO DENTRO DI ME