«NOI 40ENNI RANDAGI ABBIAMO CAMBIATO LA FAMIGLIA»
Il nuovo romanzo dello scrittore pisano incrocia formazione, saga e letteratura di viaggio. «Siamo cresciuti con l’obiettivo del successo e del benessere, ma in fondo alla cavalcata non ci aspetta nessun premio. Per imparare la vera felicità abbiamo dovuto perderci»
Pietro vorrebbe scomparire per scampare alla maledizione dei maschi della sua famiglia. Laurent fugge dai genitori che gli hanno dato troppo amore, Dora da quelli che gliene hanno dato troppo poco e da un dolore che si espande in tutta la sua vita. Tre ragazzi sulla soglia dell’età adulta si incontrano a Madrid nei primi Anni 2000, tre specchi di una generazione. Forse perduta o forse no. Non ancora. Forse addirittura pronta al riscatto. Sono i protagonisti di Randagi (Bollati Boringhieri), secondo romanzo di Marco Amerighi, scrittore toscano classe 1982, nella dozzina finale del premio Strega. Un racconto che sfugge alle definizioni. Incrocia il romanzo di formazione, la saga familiare, la letteratura di viaggio.
Chi sono i randagi?
«Direi i nati tra la fine degli Anni 70 e l’inizio degli Anni 90. Non mi piacciono le definizioni classiche come Millennial o Generazione X perché dividono nettamente delle annate in realtà somiglianti. La generazione che racconto è cresciuta con l’idea che successo e benessere fossero sinonimi. È nipote di nonni che hanno ricostruito il Paese dopo la Seconda guerra mondiale e figlia di genitori attraversati dal luccichio del boom economico. Ha creduto che sarebbe stato naturale proseguire la strada verso il miglioramento continuo e invece non è stato così. All’orizzonte non c’è stata la luce verde di cui parla Francis Scott Fitzgerald ne Il grande Gatsby. Non c’è proprio stata nessuna luce. A loro è toccato essere i primi esponenti della decrescita, la fine dei sogni è stata deflagrante. L’unico antidoto allo spaesamento generato dalle illusioni era andare altrove, perdersi, diventare, appunto, randagi».
Lei è un randagio?
«Sì e non solo per data di nascita. Sono cresciuto in un piccolo paese toscano, ho studiato a Pisa e a Madrid, oggi vivo a Milano. Con i personaggi del mio libro, soprattutto Pietro, ho a lungo condiviso la sensazione di sentirsi sempre a un bivio: la scelta tra una vita tranquilla, ma infelice, o una libera per cercare il famoso “posto nel mondo” di cui tutti parlano. Mentre scrivevo ogni tanto mi veniva da prenderlo a schiaffi, ma in realtà mi rivedevo in lui. Conosco bene quell’indecisione, la paura di scegliere».
Dora invece è un personaggio molto contemporaneo. È una ragazza più simile a quelle di oggi che alle coetanee degli Anni Zero. È femminista prima della moda del femminismo, ha un rapporto molto consapevole con il suo corpo.
«È una sopravvissuta, perde il padre a 18 anni in circostanze tragiche e da quel momento vive per riuscire a capire chi sia stato davvero. Mette tutta sé stessa in questa missione, lasciando il resto del mondo fuori, ma il tempo è spietato perché lenisce anche i dolori più forti. Dora, il cui nome è un omaggio a Doramas, il guerriero che ha portato le Canarie all’indipendenza, è una donna
battagliera, ruvida, impreca spesso. Ha il potere di farti capire qualcosa di te, se ti infastidisce vuol dire che sei conservatore. Ti porta a confrontarti con il dibattito sul genere, di cui la mia generazione non è stata protagonista. Lo hanno portato alla ribalta quelli venuti dopo, i ventenni di oggi. Noi in un certo senso lo abbiamo subito, ma riflettere su questi temi è fondamentale. Siamo cresciuti con l’oggettivazione della donna, ma la donna deve essere soggetto. È un ribaltamento evidente nei libri di Annie Ernaux, femminista prima del femminismo, o nei film della regista 43enne Céline Sciamma dove non stai spiando le donne, ma sei guidato dal loro sguardo».
In Randagi le vicende dei protagonisti si incrociano con la Storia: il G8 di Genova del 2001, gli attentati a Madrid del 2004, le proteste che poi hanno portato al movimento studentesco dell’Onda nel 2008.
«Sono ferite che ancora bruciano. Quelle istanze sono ancora molto attuali: ambiente, disuguaglianze, cancellazione del debito, istruzione accessibile. Avevamo ragione, ma non siamo stati ascoltati. L’origine della disillusione è tutta qui».
Una delle accuse mosse alla nostra generazione è proprio quella dell’individualismo. È un germe che si è insinuato in quegli anni?
«Il nostro individualismo è figlio di questo tentativo di aggregazione che non ha funzionato. Non per colpa dei singoli, ma delle istituzioni assenti. Oggi si è persa gran parte di quella energia, è vero ci sono i Fridays for Future ,maèun movimento molto diverso, meno arrabbiato. Parte della forza dei randagi è stata sapersi riconoscere, fiutare e aver modificato anche l’idea di famiglia tradizionale rendendola più fluida e abbattendo le differenze. È stata un’anticipazione di quello che la generazione successiva, più veloce e ancor più disincantata, sta portando a compimento».
Difficile non notare le similitudini tra i temi del suo libro e quelli di uno dei prodotti culturali più di successo dell’ultimo anno: la serie tv Strappare lungo i bordi di Zerocalcare.
«Ci sono perché è davvero un sentire comune. È uno zeitgeist che condivido pure con autori qualche anno più grandi di me, come Mario Desiati (altro finalista al Premio Strega ndr) e Alessandro Piperno. I loro ultimi romanzi Spatriati e Di chi è la colpa? hanno, come il mio, una seconda parte ambientata all’estero. I protagonisti sono accomunati dal bisogno di un altrove per ritrovarsi».
I trenta-quarantenni stanno fiorendo
«ABBIAMO SOSTITUITO LA TRADIZIONE CON LA FLUIDITÀ. UNA TRASFORMAZIONE CHE I VENTENNI, DISINCANTATI, STANNO PORTANDO A TERMINE»
alla fine della giovinezza?
«Hanno trovato lungo il percorso condizioni di lavoro pessime in quasi tutti i settori».
Ha una scrittura ricca di toscanismi. Sogna un altrove, ma, alla fine, torna a cercare le radici?
«Volevo raccontare una storia contemporanea, con echi di classicismo. Ho usato inflessioni dialettali e gergali e parole mutuate da un vecchio toscano. Ho riletto i miei maestri: Federico Tozzi, Romano Bilenchi, Vasco Pratolini, autori che hanno utilizzato una lingua molto ricca e descrittiva con termini poi caduti in disuso. Ho rispolverato il mio passato di filologo e guardato anche agli autori più contemporanei come Sandro Veronesi e Edoardo Nesi. Abbiamo un rapporto conflittuale con i padri, ma quando si ha paura di non arrivare in fondo al tunnel ci si volta indietro per farsi luce con le proprie origini».
Con il suo romanzo d’esordio Le ore contate (Mondadori) ha vinto il Premio Bagutta Opera Prima. Per il secondo aveva un po’ di ansia da prestazione?
«All’inizio sì, dopo un debutto spensierato e fortunato sentivo il peso delle mie aspettative e di quelle del mondo letterario e editoriale. Poi me ne sono fregato».
Si resta per sempre randagi o, a un certo punto, ci si addomestica?
«Resteremo randagi fino a quando continueremo a pensare che in fondo alla cavalcata c’è un premio che ci aspetta, un successo che sigilla il nostro percorso, qualcosa che qualcuno ci deve. È la nostra grande tara generazionale, ma il viaggio dell’eroe non esiste più. Dovremmo liberarci da questo condizionamento. Quello che resta davvero sono gli incontri e i legami, non le cose da mostrare: il posto fisso con un buono stipendio, la bella casa, la famiglia perfetta e felice. Quando si accettano le difficoltà e i fallimenti si diventa più liberi. “Libero” è proprio l’ultima parola del mio romanzo».