PICCOLO DRAGO, GRANDE PANDA E IL LORO VIAGGIO NEL MONDO LA VITA SPIEGATA A MIA FIGLIA
Indica una nuvola e dice: «La voglio papà, prendila». E io ho come sempre due strade: rispondere che non posso, che è proprio impossibile, oppure tentare di fare entrare il Drago in contatto col Panda, «eccola qui, è nella mia mano, soffia e volerà via». Un filosofo legge il bestseller di James Norbury
Anche se fatichiamo a capirlo, e forse è naturale anche questa fatica, abbiamo ben poco da spiegare ai nostri figli. I bambini imparano dai nostri comportamenti più che dalle nostre parole, dai nostri silenzi e quasi mai dal rumore che facciamo nel mondo.
Un film recente, C’mon C’mon, scritto e diretto da Mike Mills, si concentra sui problemi che ogni madre ha nell’abbellire la difficoltà quotidiana del mondo agli occhi dei figli, i quali contribuiscono a rendere ancora più difficile questo compito perché — e va detto senza più nessuna ipocrisia — crescere un figlio è complicatissimo, estenuante, faticoso, spesso alienante. Eppure meraviglioso. Lo sappiamo dalla Grecia filosofica, d’altronde, stupore e terrore sono sempre due facce della stessa medaglia. Ma C’mon C’mon è anche un film sulla paternità, anche se non necessariamente biologica, e su cosa significhi provare a rendere quei comportamenti da cui appunto i figli imparano qualcosa di delicato, esemplare, potente. Il tutto mentre spesso la fatica vince sulla volontà, e il viaggio dell’educazione si fa complicatissimo.
Esce in Italia la traduzione di un bestseller internazionale, Grande Panda, Piccolo Drago di James Norbury, in cui assistiamo alle illustrazioni del viaggio di un panda e un piccolo drago nella natura, attraverso luoghi straordinari e stagioni della vita, osservando le piccole cose e parlando del significato della vita, dell’amicizia, del dolore, della morte. Non è facile trovare strumenti dalla delicatezza adatta a spiegare (fallendo nel farlo) la ruota della vita ai propri figli, e d’altronde come si dice nel buddismo il Dharma è infinito e per apprenderlo non basta un’esistenza intera. Il panda e il drago si dicono cose semplici ma necessarie, «solo perché non sai dove stai andando, non significa che ti sei perso», oppure «un Vecchio Drago è un Piccolo Drago che non si è mai arreso».
Si fa fatica a comprendere quanto sia importante farsi vedere fallibili, affaticati, semplicemente umani, dai propri figli.
Il viaggio del drago e del panda è ovviamente anche quello di me e mia figlia, e questa pretesa di universalità che muove dal singolare è ciò che rende straordinario il lavoro di Norbury. «Cosa stai facendo?» chiese Piccolo Drago. «Non ne ho idea» rispose Grande Panda «ma è molto divertente». Le giornate passate a raccogliere i rami nei boschi, o a selezionare pietre tutte uguali nei parcheggi dei ristoranti, per non parlare delle volte in cui sono costretto ad andare
avanti e indietro perché vuole afferrare la luna ma non ci riesce, sono questo eterno ritorno del fare cose che non si capiscono, ma che tuttavia servono. C’mon C’mon termina con la consapevolezza che molta di questa fatica da genitore con i figli si smarrirà nel nulla, loro non ricorderanno niente proprio come noi non ricordiamo niente del nostro essere stati bambini, ma la sfida è provare a far ricordare, a distribuire memoria.
Spiegare il mondo a mia figlia è impossibile in effetti, eppure provare a vivere come il drago e il panda di Norbury semho bra l’unica strada per non trasformare la fatica del Dharma dell’adulto nel trauma del Dharma del bambino di domani: «Sai che questi potrebbero essere i bei tempi d’oro a cui un giorno guarderemo con nostalgia?», dice Piccolo Drago mentre sono entrambi sdraiati in un campo di grano. «Se è così» risponde il Panda, «non smettiamo di viverli».
Ed è la solita e trascinata scommessa del qui e ora che panda e drago mi danno la forza di riosservare alla luce della mia paternità: mia figlia mi indica una nuvola e mi dice «la voglio papà, prendila», e io come sempre due strade: rispondere che non posso, perché è impossibile, oppure tentare di far entrare il drago in contatto col panda, «eccola qui, è nella mia mano, soffia e lei vola via di nuovo». La tentazione della risposta dell’adulto, quella che dice che Babbo Natale non esiste, è sempre alle porte: i limiti del regno di fantasia ci spiano. La figlia e il padre sono come due animali di regni lontani che viaggiano insieme tra i boschi e le stagioni «questo giardino è bellissimo» dice il Piccolo Drago e così Grande Panda annuisce, «l’abbiamo trovato solo
«In questo momento sono troppo occupato per guardare i fiori» disse Piccolo Drago.
«Una ragione in più per guardarli» rispose Grande Panda. «Domani potrebbero non esserci più»
perché abbiamo sbagliato strada un sacco di volte». Smarrirsi, o almeno insegnare a mia figlia nata nel mondo di Google maps che il senso del viaggio può essere compreso solo se non sai già dove vorrai andare: le cose per cui vale la pena vivere si trovano nel processo di resistenza dell’esistenza che è il perdersi. Come racconta Roberto Casati nel suo recente Oceano (Einaudi 2022), la straordinaria esperienza di una barca a vela è tale solo se si tenta la rotta senza strumenti che agevolano la rotta stessa: mia figlia, la mia barca a vela, come io del resto lo sono per lei, e poi la madre che prova a rendere stupendo il senso doloroso di questo viaggio tra panda e drago finché uno dei due non sarà stanco e il padre dovrà imparare che «o lasci andare o sarai trascinato via».
Mi chiedo spesso se e quanto del sorriso di mia figlia dipenda dai miei sforzi in questi anni, dai giochi infiniti al parco o dall’aver assecondato universi infantili che faticavo a capire: insieme abbiamo rincorso il vento, e lo abbiamo battuto. Insieme ci siamo resi invisibili con un ombrello, e ci siamo riusciti. Insieme abbiamo toccato il sole, e non ci siamo mai bruciati. Insieme abbiamo camminato sul laghetto delle papere del Parco Sempione, e non siamo affondati. Non ho spiegato nulla, mi sono solo chinato verso la sua posizione con una domanda genuina a farmi compagnia: cosa rende la mia idea di nuvola migliore della sua? Ti fermi un secondo e ti accorgi che la differenza tra me e mia figlia è che lei chiede «cos’è» indicando ogni cosa mentre io ho solo smesso di chiedermelo, rispondo sempre «albero» anche quando lei indica decine di esemplari diversi perché in realtà non lo so, io non so niente come molti adulti della diversità di questo mondo.
Drago e panda viaggiano, attraversano le curiosità del bambino a cavallo tra storie zen e consapevolezze di irrilevanza, «a cosa stai pensando?» chiese Piccolo Drago, «a niente» rispose Grande Panda. «Ed è meraviglioso».
Ci provi, devi provare, a spiegare il mondo a tua figlia, e fallire: se non io, chi altri? Ma invece lei sa già tutto, o almeno ciò che è importante che sappia nel mondo da piccolo drago che le è dato vivere in questo momento: ascolta, sente, respira, e talvolta addirittura giudica. Sa quando mi annoio a raccogliere i tappi dei pennarelli assegnandogli nomi inventati, sa quando esco dalla storia del drago e del panda perché ho «cose più serie da fare». I figli, finché bambini, ci forniscono una rara occasione di eternità. Non quella stupida, una cosa con un inizio ma senza una fine, ma l’eternità dell’impossibilità della percezione del tempo: ogni attimo, in quanto attimo, è eterno se vissuto così … «Cos’è l’Universo?» chiese Piccolo Drago. Grande Panda guardò il cielo scuro della notte: «Siamo noi, piccolo amico. Noi siamo gli oceani insondabili e la luce dell’estate: non c’è niente di più magnifico».
Questo non pensare a nulla e ciò che chiamiamo “giocare”. Ho iniziato a giocare di nuovo, obbligato nel farlo, proprio con mia figlia. All’inizio non ero per nulla in grado di farlo, restavo sospeso tra il mondo dell’adulto e quello del bambino e il drago e il panda non si trovavano mai. La prima volta che ho capito di essere entrato davvero, e finalmente, nel suo essere extra-linguaggio mia figlia aveva quasi due anni.
Sono sdraiato nel suo letto a forma di capanna, nella sua stanzetta di Milano. In testa ho un cappello da mago come quello di Topolino in Fantasia. La mia mano destra attraversa il retro della capanna-letto, gioca a fare le ombre cinesi. Mia figlia inizia a passarmi oggetti di vario tipo: le mie ciabatte, qualche palloncino, un bicchiere di latte al cioccolato, una penna. È stupita dal fatto che l’animaletto delle ombre cinesi prenda i suoi oggetti e li faccia sparire e poi riapparire vicino o sotto il mio cappello da mago. Una vera magia. Tutto è durato due ore, improvvisamente ho smesso di pensare che stavamo giocando e ho iniziato a giocare e basta, tempo e linguaggio sono scomparsi. Certo, da questo gioco potrei ricavare delle “condizioni”, un sistema di regole. Potrei descrivere quando un oggetto deve essere allungato dietro i passanti di legno del letto, quanto tempo ho a disposizione per stupire i partecipanti, che punteggio acquisisco qualora riesca a fare scomparire sotto il cappello più cose possibili. Ma il punto non è questo: l’immaginazione arriva quando non è più percepita come tale, giocare è la condizione tale per cui si gioca senza sapere di giocare.
Mentre sono sdraiato sul letto, cappello da mago e pantaloni sporchi di pittura per bambini, improvvisamente divento solo un giocatore. Mia figlia, invece, è essa stessa il gioco. Mi tiene per mano, diventa il mio Piccolo Drago, e la sfida resta la stessa: potrò essere il suo Grande Panda?
MI CHIEDO SE E QUANTO DEL SORRISO DELLA PICCOLA DIPENDA DAI MIEI SFORZI IN QUESTI ANNI, DALL’AVER ASSECONDATO UNIVERSI INFANTILI CHE FATICAVO A CAPIRE
«Sono tanto stanco» disse Piccolo Drago. Grande Panda si fermò un attimo: «L’inverno è il tempo in cui la natura si ritira, si riposa e risparmia le energie per un nuovo inizio. E anche noi possiamo fare lo stesso, mio piccolo amico»
gli animali, solidali, a organizzare tutto rendendo possibile la sorpresa. Si chiama Amos Perbacco perde l’autobus il nuovo lavoro della coppia creativa formata da Erin E. Stead e Philip C. Stead che con la prima avventura di Amos si sono aggiudicati il premio Orbil e la medaglia Caldecott (traduzione di Cristina Brambilla). Dai 5 anni.
TESTI DI ELISABETTA DAMI E ILLUSTRAZIONI DI CHIARA FEDELE (RIZZOLI, PP. 180, EURO 16)
«In un tempo lontano, ai confini del mondo, su un’isola perduta tra le acque del Blu che Mai Riposa, Quattro Coraggiosi Lupi decisero di dare vita al Clan del Lupo». Un lupo che preferisce raccontare storie invece che cacciare e che per restare fedele a sé stesso accetta anche l’esilio dal branco: poesia, crescita, natura selvaggia si rincorrono. Lo ha scritto Elisabetta Dami, creatrice del mitico Geronimo Stilton, che qui si regala, e regala, un’avventura del tutto diversa da quelle del topo giornalista (ma i valori di fondo, in filigrana, sono quelli). Dai 9 anni.