Corriere della Sera - Sette

LAURA BIAGIOTTI CHE PORTÒ LA MODA IN CINA MA NON LASCIÒ MAI ROMA

- DI MARIA LUISA AGNESE magnese@rcs.it

Cina, aprile 1988: a Pechino ci sono ancora le fogne a cielo aperto e il vento caldo e secco alza la sabbia con i suoi microbi, mentre a Shangai, ancora intatta nel suo fascino coloniale, si cammina sulle fondamenta della Borsa prossima ventura. Una signora visionaria fa sfilare per la prima volta la moda occidental­e nel neonato Internatio­nal Hotel, evento seguito in tv da 200 milioni di persone. Una manciata di ragazze alte belle e flessuose, altro che le giapponesi, si muovono in passerella incredule ma quasi felici per quella opportunit­à inaspettat­a. Nelle foto, in piazza Tienanmen, davanti alla città e sulla Grande Muraglia, le neomodelle si stringono e danzano nei loro cachemire bianchi e rossi intorno a quella signora mora che per prima aveva intuito che il vento della storia, e del mercato, stava virando.

Incuriosit­i dalla stilista italiana che importa il loro cachemire da tempo e tira fuori 3 golf da una quantità che a loro serve per farne uno e infeltrito, i cinesi la ricambiano, la chiamano Signor Biagiotti, che per loro era e ancora è un onore, mettono in prima fila dell’evento il 25 aprile un alto funzionari­o e le svelano il significat­o del suo nome: lavoro duro, l’amore dei fiori, orgoglio, donna elegante.

Vero o falso che sia, rappresent­a bene il nucleo duro di questa Regina del cachemire (copyright New York Times). Prima ad andare in Cina, prima a coniugare cultura e moda (ha restaurato la Scala Cordonata del Campidogli­o) Laura Biagiotti non ha mai voluto lasciare Roma per Milano che era diventata la capitale del settore. Per lei Roma era la grande bellezza, una sorta «di Itaca da cui ripartire e mai distaccars­i. Probabilme­nte ho sacrificat­o anche parte della mia carriera per restare qui, quindi mi sono concessa un lusso straordina­rio; però questa dimensione di staccare, di riflettere, di stare per mio conto è nel mio carattere e l’ho privilegia­ta su altre cose».

Aveva cominciato nella sartoria di mamma Delia, per passare in quella di Emilio Schuberth, «ricordo il loden foderato di cincillà e la Cadillac con le rose rosse, un altro mondo dove le signore facevano 5 prove, un orlo poteva essere uno psicodramm­a», aveva raccontato a Cristina Parodi nel Tg5. Ma Laura capisce svelta che le donne cominciava­no a lavorare e volevano altro. «Dicevano che ero matta quando pensavo gonne con la coulisse in vita perché, si sa, il corpo si stringe e dilata. Ma mi fa piacere aver recuperato alcune lavorazion­i di tipo pregiato, come filzature, impunture, piegoline». E con i suoi abiti ampi e scivolati conquista nel tempo un gruppo di fedelissim­e, Carla Fracci, Mara Venier, Romina Power, Marta Marzotto, Virna Lisi.

A due passi da Roma, nel castello di Guidonia, monumento nazionale, la signora in bianco installa il quartier generale, luogo di abitazione e collezioni (200 pezzi di Balla, l’abito originale di Angelica nel ballo del Gattopardo), progettato e restaurato col marito molto solidale, Gianni Cigna. Da là, fra quadri, cineserie, un orto fantastico (piselli, cicorione, olivi pendolini) guida la sua impresa con spirito rinascimen­tale. Fino alla fine, il 26 maggio 2017. Ora il timone del doppio binario — moda e cultura — l’ha raccolto la figlia Lavinia.

CONIUGÒ ABITI E CULTURA. «MILANO? HO SACRIFICAT­O PARTE DELLA MIA CARRIERA PER NON TRASFERIRM­I. UN LUSSO STRAORDINA­RIO»

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