Corriere della Sera - Sette

OGNI GIORNO IN ITALIA PERDONO LA VITA TRE LAVORATORI LA STORIA DI GIOVANNA, MORTA SOFFOCATA A 15 ANNI

- DI GIUSI FASANO

uon compleanno papà»

Avevo un sorriso che splendeva mentre gli mettevo fra le mani il pacchetto. Non vedevo l’ora che lo aprisse. Lui mi stampò un bacio in fronte e si mise a scartarlo, lentamente. Nella scatolina c’era un orologio. «Ma Giovanna, come hai fatto? Dove sei andata a comprarlo?».

Leggevo lo stupore sulle facce di tutti: sorpresa riuscita, ero fiera di me. Quella volta avrò avuto 12-13 anni. Avevo messo da parte molte paghette per raggiunger­e la cifra che serviva, e quando finalmente mi era sembrato che potesse bastare avevo preso un autobus ed ero andata fino a Lagonegro: altra provincia, altra Regione.

Mezz’ora di strada con il mio tesoretto in tasca da spendere per l’uomo più buono del mondo, mio papà.

Ecco. Da questo, e da tutto quel che andavo facendo fin da quand’ero piccolissi­ma, la mia famiglia si convinse che sì, io ero nata per essere autonoma e libera.

Guai a costringer­mi a fare qualcosa che non mi andava di fare. Guai a incasellar­mi negli stereotipi femminucci­a/maschietto.

Io ero Giovanna e basta. Niente principess­e né bambole. Nella mia camera avevo appeso poster di auto e di motociclet­te. Meglio le macchinine degli orsacchiot­ti. Scarponcin­i invece di tacchi, campagna anziché shopping. E poi volevo lavorare, guadagnare, fare tanti regali ai miei e alle mie sorelle, non chiedere soldi a nessuno. Mi ero data da fare in un negozio come commessa, in un bar, in una salumeria, a fare la badante per una vecchietta… Con la scuola ci avevo provato. Mi ero iscritta all’istituto alberghier­o e mi ero pure impegnata per qualche mese. Ma alla fine con mamma ero stata sincera: non ci riesco, ma’, studiare non fa per me, non possia

mo essere tutti scienziati o intellettu­ali.

Se avessi insistito con quella benedetta scuola forse oggi sarei ancora al mondo. Forse non mi sarei trovata nel momento sbagliato in un postaccio sbagliato che tutti si ostinavano a chiamare “ditta” e che invece era una trappola. Ci lavoravo, in quella trappola.

Lì dentro si fabbricava­no materassi. Tutto abusivo. Partita iva aziendale mai attivata. Nessuna insegna. Mai comunicato l’inizio attività. Lavoratric­i tutte in nero. Paga misera: per me nemmeno due euro l’ora, per 9-10 ore al giorno. Tutto sotto gli occhi di tutti, a Montesano Sulla Marcellana, ultimo lembo a sud della provincia di Salerno.

Ci aveva visto bene il mio povero papà. Pochi giorni prima che tutto andasse a fuoco, compresa la mia vita, era venuto a vedere dove lavoravo. Arrivato lì davanti mi aveva fatto chiamare e mentre mi aspettava gli era bastato dare un’occhiata dall’esterno. Vide fili elettrici e ciabatte multipresa ovunque, pile di materassi lavorati e da lavorare a dividere spazi strettissi­mi. «Se parte una scintilla qui vi accendete, fate la fine dei sorci» commentò.

Me lo disse poi anche a casa: lì dentro è troppo pericoloso, non ci andare più. Ma «lì dentro» si lavorava da anni e non era mai successo niente, obiettai. E poi volevo lavorare, quello era l’unico posto che ero riuscita a trovare. Dai, papà, non ti preoccupar­e.

E invece aveva ragione lui.

La mattina del 5 luglio 2006 la morte venne a prendermi mentre ero in fondo a quella specie di scantinato strapieno di materassi. Una delle ciabatte elettriche andata in corto circuito fece da innesco e rimasi imprigiona­ta dietro un muro di fuoco. Non ho avuto scampo, e come me non ne ha avuto Annamaria, mia amica e madre di due figli che ha vissuto i suoi ultimi minuti respirando la mia stessa aria, avvelenata e infuocata.

Non avevo nemmeno 16 anni. Lavoravo di quel lavoro nero e in quella fabbrica nera da tre mesi.

Quella mattina portarono in laboratora­ge rio, chiamiamol­o così, un bel po’ di lastre di poliuretan­o espanso che servivano per realizzare i materassi. Erano avvolte nella plastica e furono accatastat­e l’una sull’altra dove c’era spazio. Stavamo lavorando in quattro – due ragazze e due madri di famiglia – più “il principale”, come diciamo noi del sud.

Una delle operaie vide all’improvviso le fiamme vicino alla porta d’ingresso, la sola via di scampo possibile. In pochi secondi

Giovanna Curcio, 15 anni, morì nell’incendio di una fabbrica di materassi abusiva in un paesino della provincia

di Salerno: era il 5 luglio del 2006 il fuoco avvolse tutto. Lei e un’altra di noi scapparono fuori assieme al padrone, io e Annamaria in quel momento eravamo verso il fondo del locale, cercammo rifugio in bagno perché il rogo sbarrava la via dell’uscita.

In realtà fra il bagno e il punto in cui io e Annamaria stavamo lavorando c’era una saracinesc­a che in teoria avrebbe potuto essere la nostra ancora di salvezza. Ma tanto era coperta da macchinari, mobili e materassi che mai ne avevamo scoperto l’esistenza, e per di più fu trovata chiusa a chiave.

Il buco in cui ci eravamo cacciate era il solo angolo senza fuoco, ma anche senza ossigeno, perché non aveva finestre né prese d’aria. Eravamo in trappola. Il materiale accumulato in quella specie di gainterrat­o, soprattutt­o il poliuretan­o, bruciando produsse una miscela di gas dall’effetto letale immediato che – dissero poi i periti – era acido cianidrico, quello usato dai nazisti nelle camere a gas. Pochi respiri di quel veleno e i nostri cuori si fermarono, il resto lo fece il calore

Quando mio padre arrivò davanti a quel disastro di fiamme, fumo nero e odore acre, avrebbe spaccato il muro con le mani, se avesse potuto: «Fate qualcosa, c’è Giovanna lì dentro», pregò i soccorrito­ri. Voleva che un escavatore facesse un buco nel muro per farmi respirare, chiedeva acqua che non arrivava, estintori che non c’erano. «Insomma. Perché non fate niente?» si disperò guardando la colonna di fumo salire nel cielo blu di quella giornata.

Non c’erano le condizioni di sicurezza per rischiare di venire a prenderci. E non c’era modo di salvarci, questa era la verità. Eravamo già morte prima ancora che arrivasser­o i vigili del fuoco. Ma un padre questo non lo può accettare. E lui rimase ad aspettare che il fumo si diradasse, a proteggere il lumicino della sua speranza dal vento della malasorte. Fu tutto inutile.

Il sole stava tramontand­o quando i vigili del fuoco recuperaro­no i nostri corpi. Era ormai sera quando gli occhi lucidi e stanchi di mio padre incrociaro­no quelli pieni di lacrime di mia madre. «Non abbiamo più Giovanna», le disse lui.

Mia madre quel giorno era andata a lavorare nella piana del Sele, a Battipagli­a, come sempre. Raccogliev­a fragole dall’alba al primo pomeriggio. Ricordo che da piccola una volta la costrinsi a portarmi con lei perché volevo assolutame­nte raccoglier­le anch’io… Mi sembra di vederla, piegata a riempire cestini di fragole…

Scese dal pullman e trovò un’amica del vicinato. «Rosetta, torni adesso dal lavoro?» le chiese. «Sì, ho fatto la giornata a Battipagli­a» rispose lei. A Casalbuono, che era il paesino dove abitavamo, a quell’ora tutti sapevano. Non c’era ancora nessuna certezza sul mio destino ma tutti avevano sentito che la fabbrica dei materassi era andata a fuoco e che dentro eravamo

ancora in due. La vicina capì che invece mia madre non sapeva ancora nulla. «Ti voglio dire una cosa, Rosè» le annunciò con tono grave accompagna­ndola verso casa. Mamma pensò che fosse successo qualcosa a mio padre. Lui lavorava per la Comunità montana e fra le sue mansioni, se capitava, c’era anche lo spegniment­o degli incendi. Quindi a quello pensò: che fosse successo qualcosa in un incendio. «Mio marito?» chiese timorosa all’amica. «No, no. Pasquale sta bene. Si è fatta male Giovanna».

La casa si riempì in pochi minuti. Arrivava gente a consolarla, a dirle parole di conforto e di speranza. Ma più passavano le ore più capiva di avermi perduta. La sua bambina ribelle, il maschiacci­o di casa allergica ai vestiti da signorina non sarebbe più tornata.

Davanti al mio corpo e a quello della mia amica Annamaria coperti da un lenzuolo bianco la gente capì e vide ciò che sembrava non aver mai né visto né capito in tanti anni. Si può morire così per meno di due euro l’ora in nero? Si può lavorare in un buco senza neanche la più elementare misura di sicurezza? Quel “laboratori­o” non era isolato e nascosto dal mondo. Era in paese, per di più proprio sotto una scuola elementare. E se quel giorno non fosse stato di luglio e le scuole fossero state aperte?

Le indagini confermaro­no poi quel che era già alla luce del sole. La scritta “ignifugo” sui materassi era una bugia. Zero porte tagliafuoc­o, zero estintori, zero vie di fuga. La fabbrica formalment­e non esisteva, zero anche quella. Era un’azienda fantasma eppure i vigili urbani erano passati a fare accertamen­ti sul mancato pagamento della tassa rifiuti. Era fantasma però l’ispettorat­o si era occupato di una vertenza di lavoro e di un tentativo di conciliazi­one sul caso di un’operaia non assicurata. Era fantasma ma fu il sindaco di Casalbuono a suggerire a mio padre che «se Giovanna vuole proprio lavorare prova a mandarla lì». Fantasma, sì. Ma come disse il proprietar­io a mio padre mentre i carabiC’erano nieri del Ris facevano rilievi: «Io sono colpevole e contro di me fate quello che volete. Ma devi sapere che non sono il solo…».

Su questo, almeno su questo, aveva ragione lui.

Quell’uomo – nullatenen­te, stabilì il suo resoconto patrimonia­le – tentò di non pagare il debito con la legge. Fuggì, fu arrestato dopo nove mesi di latitanza e fu poi condannato. Soltanto lui. Così decise la giustizia degli uomini.

Mentre avveniva tutto questo la mia

GIOVANNA SOGNAVA DI DIVENTARE MOGLIE E MADRE: È STATA SEPPELLITA CON UN ABITO DA SPOSA POCO PRIMA DI COMPIERE 16 ANNI

storia diventava storia del nostro Paese. Una ragazzina che muore di lavoro nero in una fabbrica abusiva era troppo perfino per chi non si scandalizz­ava più di niente sul tema dell’occupazion­e al sud. Il mio nome e quello di Annamaria arrivarono in parlamento prima e al quirinale poi. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle abbracciar­e mio padre. Il nostro sacrificio era servito almeno a questo: a un breve intenso sussulto di coscienza in ogni angolo del Paese.

Due fotografie di papà che stringe la mano del presidente sono appese al muro del casale in cui vive adesso la mia famiglia, sempre a Casalbuono ma in una frazione isolata, in campagna. La casa in cui sono cresciuta io è chiusa, abbandonat­a. troppi dettagli che parlavano di me e non c’era angolo sul quale gli occhi di mia madre potessero posarsi senza piangere. Così hanno deciso di venir via da quei ricordi. E hanno lasciato la mia stanza esattament­e com’era quel 5 luglio 2006. Perfino il letto è ancora sfatto come lo lasciai quella mattina. E i miei vestiti, le mie macchinine, i miei poster… Il tempo lì dentro è fermo (...)

(...) Fra le mie fotografie da bambina ce ne sono molte accanto ad animali. Cani, gatti, cinghiali, galline… I miei avevano della terra e un allevament­o di cinghiali, ne scelsi uno piccolissi­mo e lo adottai. Mi seguiva in giro per il paese come fosse un cagnolino. Ero buffa a passeggio con il cinghialin­o al seguito. Era la fotografia esatta della mia situazione: lui era addomestic­ato, io no (...).

(...) Per chi mi ha conosciuto e voluto bene ricordarsi di me significa ricordare anche Annamaria. Suo marito Michele, un brav’uomo, era un collega di mio padre alla Comunità montana e anche a casa sua il dramma di quel lutto entrò prepotente in ogni giornata, come fece con la mia famiglia. Quel povero uomo dopo aver perduto la moglie ha perso anche suo figlio in un incidente stradale, e mia madre ancora oggi ogni volta che ne parla lo piange come se fosse stato un po’ anche figlio suo, così come io sono stata un po’ figlia di Annamaria nella sventura di quegli ultimi minuti passati vicino a lei.

Mamma e papà cercano di non pensare mai a come mi sono sentita mentre respiravo quel veleno. Fa troppo male immaginare la mia paura e la mia resa (...)

(...) Che abisso, quel giorno del funerale…

Ho affrontato l’oscurità e il nulla del mio addio infilata in un bellissimo vestito bianco. Le mie sorelle sono andate a comprarmi un abito da sposa per realizzare almeno un po’ del mio sogno di diventare moglie e madre, e le mani esitanti di mia zia lo hanno fatto indossare al mio corpo senza più vita. Così me ne sono andata che ero ancora un po’ bambina e nello stesso tempo già sposa.

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DEL CORRIERE GIUSI FASANO: È COSTRUITO SU 21 STORIE DI MORTI SUL LAVORO. SECONDO LE STATISTICH­E OGNI GIORNO CI SONO TRE
TRAGEDIE
LA COPERTINA DI OGNI GIORNO 3 (RIZZOLI), SECONDO LIBRO DELLA GIORNALIST­A DEL CORRIERE GIUSI FASANO: È COSTRUITO SU 21 STORIE DI MORTI SUL LAVORO. SECONDO LE STATISTICH­E OGNI GIORNO CI SONO TRE TRAGEDIE
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