Sacchetti griffati, portapacchi, noce-prosciutto Tre oggetti di culto per gli italiani del Duemila
Buste di carta di marchi della moda, con dentro la bottiglietta d’acqua, in mano alle impiegate riscattano le borse taroccate. Sui tetti delle auto un box aerodinamico tipo bara sostituisce torri di valigie. E negli Autogrill viene adorato un “minerale nero” con l’interno in carni rosee
Qualsiasi autobus mattutino gremito da dipendenti del terziario è più carico di glamour di una passerella. Centinaia di impiegate sfoggiano borse taroccate dal logo imperfetto che vengono riscattate dal sacchetto di carta griffato tenuto nell’altra mano. I più bei nomi della moda sono usati per trasportare bottiglie di minerale, lavori a maglia incompleti, grossi thriller da classifica e altro materiale ingombrante e umile.
Quando il conte Mascetti in Amici miei si allontana indignato dalla casa del poco ospitale barista Necchi, raccoglie le sue poche cose in un sacchetto da supermercato di plastica gialla che chiama con enfasi «la mia valigia». Gli oggetti assumono la dignità che noi diamo loro. Sono il riflesso di ciò che siamo nell’intimo e non di ciò che crediamo di apparire. In quel sacchetto liso Tognazzi non vede la plastica, ma sente il cuoio delle valigie che hanno accompagnato la sua lontana vita da nobile. Benché decaduto, il conte Mascetti opera un innalzamento dell’oggetto, lo costringe a inchinarsi a lui.
Esattamente il contrario di quanto accade all’esercito del terziario che si lascia asservire dall’oggetto, snaturandolo. Nato per trasportare in maniera discreta un contenuto dalla valenza-fashion, nell’uso quotidiano il sacchetto da stilista trasferisce la sua valenza-fashion all’esterno. Le vibrazioni del Sacro nome esposto in caratteri neri si espandono come un’onda alla mano impugnatrice e quindi si propagano a tutto il corpo, dando il brivido del made in Italy anche ai più umili capi da grande magazzino.
Questo compito nobilitante è svolto dai sacchetti fino allo sfinimento. Il popolo dei sacchetti diventa schiavo di quella metonimia grazie alla quale il mondo della moda prospera. La parte per il tutto: basta la griffe su una cintura, su un campioncino di profumo, su un foulard in acrilico allegato a una rivista per sentirsi parte dell’esclusivo universo della moda. Molti stilisti fomentano questo gioco, firmando oggetti sempremeno esclusivi, ma dotati di firme sempre più ingombranti. Però sono ancora fermi un passo indietro. Nulla coniuga visibilità della firma ed economia quanto un sacchetto: se gli stilisti lo capissero, potrebbero risolvere qualsiasi crisi vendendo solo i propri sacchetti di carta vuoti da adibire al trasporto di tupperware di insalata.
IL PORTAPACCHI-BOX
Omnia mea mecum, «porto con me tutto ciò che posseggo», è il motto che accompagna le allegorie della lumaca. Tre parole secche che racchiudono la filosofia antimaterialista, tramandata da Aristippo a Schopenhauer fino ai box in plastica che spiccano sulle station wagon di moderni vacanzieri. Box, non portapacchi.
I box stanno ai portapacchi come la laconicità del latino sta alla prolissità dell’italiano. I vecchi portapacchi erano prolissi, torreggianti di valigie, sacchi improvvisati, ceste di verdura, damigiane d’olio. Eccesso annullato dalla laconicità di box compatti e misteriosi che ricordano Kubrick ai cinefili, una bara ai superstiziosi.
Si dice portapacchi e si pensa all’ingombro claustrofobico di un polveroso emporio di provincia. Si dice box e si pensa al nulla immacolato dello showroom di uno stilista vicentino che si è dato un nome giapponese. Perché anche il box, come tutti gli emblemi della tensione minimalista, nel togliere materia aggiunge altro sul piano immateriale. La sua assenza di indicazioni è l’indicazione più potente. Quale sarà la meta del nostro collega? Nulla traspare dal box.
Per Ettore Sottsass le case dei poveri si riconoscono dall’accumulo in metrature ristrette, mentre le case dei ricchi sono spazi disadorni con pochi arredi di pregio. La stessa contrapposizione può essere tracciata tra le auto dei poveri, schiacciate dai portapacchi, e le auto dei ricchi, coronate da lievi box aerodinamici. Ma non è necessario essere ricchi per usare un box che è invece il trionfo della democrazia. Il box è indispensabile per chi attua la finzione scenica delle vacanze. I tg amano trasformare ogni breve ponte in una migrazione dei popoli. Ma non è sempre possibile far parte degli sventurati incolonnati sulla Salerno-Reggio Calabria. Così si salta qualche vacanza, ma per non sentirsi umiliati si ricorre al trucco: ci si prepara, si parte, si torna in nottata, ci si barrica in casa per il resto del ponte. Mentre in passato fingere una partenza richiedeva una messa in scena d’accuratezza viscontiana nella preparazione del carico sul portapacchi, oggi si può partire con il box vuoto. Risparmiando tempo e fatica e impressionando comunque il vicinato.
LA NOCE DI PROSCIUTTO
Quando non c’erano i film di Natale, i nobili del XVII secolo si divertivano allestendo Wunderkammer, Camere delle meraviglie, in cui raccoglievano oggetti insoliti. Nell’era di Neri Parenti, la Wunderkammer si è trasformata nei più democratici Autogrill.
Il mistero che si respirava nelle Wunderkammer era dovuto al continuo confondersi delle linee che dividono natura e artificio. Il mistero che si respira negli Autogrill è dovuto alla stessa commistione tra Cose Naturali e Cose Artificiali. All’ingresso delle Wunderkammer si era salutati da stupefacenti automi arabi che scrivevano o parlavano; all’ingresso degli Autogrill siamo accolti da uno zoo meccanico di maialini grufolanti, conigli saltellanti, scimmie che si tolgono il cappello. Intorno a questi prodigi si formano capannelli di incantati vacanzieri occasionali, spesso adulti, che ridono tra l’indifferenza cinica di camionisti e agenti di commercio.
Dopo aver consumato un Menù Energy, la visita alla Wunderkammer Autostradale prosegue nel reparto Cose Naturali. Per Heidegger la meraviglia delle collezioni barocche nasceva dalla presenza del mostruoso. I vegetali antropomorfi e le rocce viventi che facevano inorridire i nobili erano nulla di fronte al mistero della Noce di Prosciutto al Pepe. Da fuori sembra un minerale nero, compatto, cosparso di una granulosità forse radioattiva. Dentro rivela carni rosee, quasi umane. E per dimostrare questa doppia natura gli addetti dell’Autogrill aprono una Noce che poi espongono sadicamente, producendo nel pubblico le stesse reazioni delle mucche sezionate di Damien Hirst.
Da una certa latitudine della Penisola in giù la Noce è sostituita da giare d’olio con dimensioni ai limiti dell’intrasportabilità. È la definitiva sconfitta del facilonismo di Marc Augé, che bollerebbe come non-luoghi gli Autogrill, in realtà ultimo baluardo del diversificato artigianato glocal italiano.
Dalla Wunderkammer si usciva con emozioni e nozioni. Dall’Autogrill si esce con acquisti che permettono di creare una Wunderkammer direttamente in automobile. I tabelloni luminosi autostradali dicono che un incidente su cinque è causato dalla distrazione. Gli altri quattro sono causati forse dall’irritazione prodotta dai maialini grufolanti, dalle radiazioni della Noce o dall’esplosione di una giara.