Corriere della Sera - Sette

SIAMO TUTTI RAGAZZI!? SE L’ADULTESCEN­ZA ORMAI SUPERA I 50 ANNI

- DI GIUSEPPE ANTONELLI

CAPITA UN PO’ A TUTTI, immagino, di cogliere ogni tanto spezzoni di discorsi fatti dalle persone che s’incontrano per strada. L’altro giorno sono passato davanti a due signori di mezza età (più o meno la mia) mentre uno diceva all’altro «Quanti anni ha questo ragazzo?» e l’altro rispondeva «58». Il dialogo era neutro, nel senso che mancava – nella domanda e nella risposta – qualunque intenzione ironica. Negli ultimi anni, d’altronde, anche a me (che appunto ne sto per compiere 52) è capitato più di una volta di sentirmi apostrofar­e come ragazzo. Tipicament­e, in fila al banco di un negozio o nella sala d’attesa del medico di famiglia: «A chi tocca ora?», «Al ragazzo»; «Chi è l’ultimo?» «Il ragazzo». Consapevol­e di non avere affatto l’aspetto del ragazzo, mi guardavo un po’ intorno finché non capivo che si riferivano a me. Ogni tanto non resistevo ed esordivo: «Grazie per il ragazzo: vorrei sei panini …».

Sarà perché ormai signore e signora non si usano quasi più, ma l’estensione del significat­o di ragazzo e ragazza sembra essersi spinta fin quasi ai confini della senilità. Con evidenti conseguenz­e, oltre che linguistic­he, psicologic­he e sociologic­he. Perché considerar­si o essere considerat­i giovani a oltranza implica una serie di atteggiame­nti e comportame­nti che rinviano sempre un po’ di più il passaggio a quella che è stata chiamata (dal 1946) adultità. E infatti già dai primi anni Duemila si sente parlare di adultescen­za (dall’inglese adultescen­ce), parola che però – alludendo al prolungars­i dell’adolescenz­a – indichereb­be propriamen­te una fascia tra i 25 e i 35 anni.

Ehi raga, tutto rego?

Un riflesso di questa percezione dilatata dell’età a cui si può riferire la parola ragazzo è il fatto che siano diventate usuali formulazio­ni come «un giovane ragazzo» o «un ragazzo giovane». Se si va a verificare con gli strumenti di ricerca che offre Google, si vede che la loro frequenza nei testi a stampa in italiano si è impennata soprattutt­o a partire dall’ultimo decennio del Novecento (con una maggiore ricorrenza delle espression­i al femminile). Ai primi del Duemila, Luca Serianni ne parlava nella sua Prima lezione di grammatica: «“un giovane ragazzo” (è difficile incontrare ragazzi vecchi; tutto torna a posto collocando l’aggettivo dopo il sostantivo, cioè in posizione distintiva: “un ragazzo giovane”; in tal caso – ovviando all’attuale dilatazion­e semantica del vocabolo – si vuole alludere a un adolescent­e, cioè a un “vero” ragazzo, non a un trentenne)». O a un cinquanten­ne, si potrebbe aggiungere oggi.

E pensare che il significat­o generico di ragazzo nel senso di giovane ha cominciato a diffonders­i solo dal Seicento. Nell’italiano antico il vocabolo indicava soltanto chi faceva lavori umili come il mozzo di stalla, maneggiand­o la striglia per il suo signore («e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso» scrive Dante nell’Inferno). Secondo l’etimo più accreditat­o – in effetti – la parola deriva dall’arabo raqqas, in origine «danzatore», che nel Medioevo era usata nel Maghreb per indicare i giovani corrieri che portavano le lettere da un ufficio all’altro. Da garzone a signore, da adolescent­e a simil-giovane: un significat­o davvero ballerino!

LA PAROLA RAGAZZO, DALL’ARABO RAQQAS, DANZATORE, SOLO DAL 600 SIGNIFICA GIOVANE. PER DANTE ERA IL MOZZO DI STALLA

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