SIAMO TUTTI RAGAZZI!? SE L’ADULTESCENZA ORMAI SUPERA I 50 ANNI
CAPITA UN PO’ A TUTTI, immagino, di cogliere ogni tanto spezzoni di discorsi fatti dalle persone che s’incontrano per strada. L’altro giorno sono passato davanti a due signori di mezza età (più o meno la mia) mentre uno diceva all’altro «Quanti anni ha questo ragazzo?» e l’altro rispondeva «58». Il dialogo era neutro, nel senso che mancava – nella domanda e nella risposta – qualunque intenzione ironica. Negli ultimi anni, d’altronde, anche a me (che appunto ne sto per compiere 52) è capitato più di una volta di sentirmi apostrofare come ragazzo. Tipicamente, in fila al banco di un negozio o nella sala d’attesa del medico di famiglia: «A chi tocca ora?», «Al ragazzo»; «Chi è l’ultimo?» «Il ragazzo». Consapevole di non avere affatto l’aspetto del ragazzo, mi guardavo un po’ intorno finché non capivo che si riferivano a me. Ogni tanto non resistevo ed esordivo: «Grazie per il ragazzo: vorrei sei panini …».
Sarà perché ormai signore e signora non si usano quasi più, ma l’estensione del significato di ragazzo e ragazza sembra essersi spinta fin quasi ai confini della senilità. Con evidenti conseguenze, oltre che linguistiche, psicologiche e sociologiche. Perché considerarsi o essere considerati giovani a oltranza implica una serie di atteggiamenti e comportamenti che rinviano sempre un po’ di più il passaggio a quella che è stata chiamata (dal 1946) adultità. E infatti già dai primi anni Duemila si sente parlare di adultescenza (dall’inglese adultescence), parola che però – alludendo al prolungarsi dell’adolescenza – indicherebbe propriamente una fascia tra i 25 e i 35 anni.
Ehi raga, tutto rego?
Un riflesso di questa percezione dilatata dell’età a cui si può riferire la parola ragazzo è il fatto che siano diventate usuali formulazioni come «un giovane ragazzo» o «un ragazzo giovane». Se si va a verificare con gli strumenti di ricerca che offre Google, si vede che la loro frequenza nei testi a stampa in italiano si è impennata soprattutto a partire dall’ultimo decennio del Novecento (con una maggiore ricorrenza delle espressioni al femminile). Ai primi del Duemila, Luca Serianni ne parlava nella sua Prima lezione di grammatica: «“un giovane ragazzo” (è difficile incontrare ragazzi vecchi; tutto torna a posto collocando l’aggettivo dopo il sostantivo, cioè in posizione distintiva: “un ragazzo giovane”; in tal caso – ovviando all’attuale dilatazione semantica del vocabolo – si vuole alludere a un adolescente, cioè a un “vero” ragazzo, non a un trentenne)». O a un cinquantenne, si potrebbe aggiungere oggi.
E pensare che il significato generico di ragazzo nel senso di giovane ha cominciato a diffondersi solo dal Seicento. Nell’italiano antico il vocabolo indicava soltanto chi faceva lavori umili come il mozzo di stalla, maneggiando la striglia per il suo signore («e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso» scrive Dante nell’Inferno). Secondo l’etimo più accreditato – in effetti – la parola deriva dall’arabo raqqas, in origine «danzatore», che nel Medioevo era usata nel Maghreb per indicare i giovani corrieri che portavano le lettere da un ufficio all’altro. Da garzone a signore, da adolescente a simil-giovane: un significato davvero ballerino!
LA PAROLA RAGAZZO, DALL’ARABO RAQQAS, DANZATORE, SOLO DAL 600 SIGNIFICA GIOVANE. PER DANTE ERA IL MOZZO DI STALLA