SANTARELLI E LA RINASCITA DEL BELLONE
La nuova frontiera di Casale del Giglio
I Romani lo chiamavano Vinum Bellonam. Era un bianco dedicato alla Dea Bellona. Tanti i sinonomi del vitigno: Cacchione, Pampanaro, Bellobuono, Albanese, Zinnavacca, Arciprete, Pacioccone, Uva Pan. Confinato nel Lazio, tra i Castelli romani, Anzio e Cori (Latina), il Bellone si è fatto notare in tutta Italia. Merito della recente rinascita nel Parco archeologico del Colosseo, e soprattutto della capacità dei produttori di trasformare il muscoloso ricordo della bevanda dell’Antica Roma in un vino che profuma di agrumi e pesca, fresco e con buona struttura. Casale del Giglio punta su una doppia versione di Bellone: l’Anthium
(12 euro), da un vigneto di oltre 60 anni sopravvissuto alla filossera, e il Radix (38euro) che matura 24 mesi in rovere e 6 in anfora, premiato con il massimo punteggio, 5 grappoli, dalla guida Bidenda 2022. Casale del giglio è nata nell’Agro pontino, in una zona paludosa risanata negli anni Trenta. Un team di archeologi olandesi scava da 40 anni tra i 170 ettari di vigneto (1,7 milioni di bottiglie l’anno) della famiglia Santarelli: sono venuti alla luce i resti di Satricum, città del quinto secolo avanti Cristo. «Dal 1985», racconta Antonio Santarelli (nell’illustrazione qui sopra), «testiamo 57 varietà. Abbiamo selezionato quelle che si adattano meglio a questa terra». Grazie al professor Attilio Scienza e all’enologo Paolo Tiefenhaler, sono nati più di 20 vini, tra cui il Mater Matuta (Syrah e Petit Verdot).
Tra gli autoctoni, sono stati rilanciati la Biancolella di Ponza e il Pecorino di Amatrice. Oltre al Bellone, in duplice versione.