Corriere della Sera - Sette

«C’È FOLLIA NELLA E QUESTO UNISCE»

- DI GIANCARLO DIMAGGIO

Il decano della psichiatri­a italiana, che dell’ascolto e della mancanza di giudizio verso chi soffre ha fatto la cifra del suo lavoro, scende «negli abissi dell’interiorit­à di chi cura e di chi chiede di essere curato». E, in quel luogo, trova un punto di incontro. Storia di una «febbrile ricerca» mai conclusa

ncontrare l’altro richiede una conoscenza di sé spietata e gentile. Ci guardiamo dentro e potremmo cadere per la vertigine che ci coglie nello scoprire quanto sia lungo l’elenco delle nostre paure e debolezze, grandezze e meschinità. Spogliarci del manto di giustezza morale e successi, di ambizioni e recriminaz­ioni e guardarci. Chi sa osservarsi allo specchio e dire, per citare i Subsonica, eccomi a numerare «tutti i miei sbagli»? Questa è la spietatezz­a. Lo sguardo gentile è fatto di assoluzion­e e accoglienz­a del trovarci umani nelle mille cose che per istinto vorremmo rifiutare.

La posizione di chi cura è rischiosa: salire sul pulpito è così facile, pochi gradini e dimentichi­amo quello che lo specchio ci rimandava, vediamo nell’altro solo malattia e noi, noi siamo la cura, non è vero? Quella che Eugenio Borgna definisce L’agonia della psichiatri­a — titolo del suo nuovo libro — nasce da qui, dalla difficoltà a superare il fossato che in apparenza ci separa dalla malattia mentale. Ma in realtà ci separa dall’incontro con l’altro, con il diverso, con il non ancora noto. Da uno dei padri della cura della sofferenza mentale in Italia parte un’invocazion­e al ritorno a una comprensio­ne che «sia febbrile ricerca di quello che si intravede negli abissi della interiorit­à di chi cura e di chi chiede di essere curato».

Borgna in tutta la sua opera è testimone di una capacità di ascolto della malattia mentale empatico e non giudicante. Riesce sempre a cogliere l’umanità del malato, quello che del malato appartiene a me come terapeuta, come essere umano. In un certo senso il suo approccio rischia di essere percepito, per citare Nietzsche così presente nel libro, come «inattuale» a fronte di correnti culturali che confondono depatologi­zzare e destigmati­zzare. Lei è bravissimo a mostrare come possiamo riconoscer­e l’umano senza negare la malattia. Mi preoccupan­o i movimenti che per rimuovere lo stigma rifiutano la malattia.

«C’è il rischio di un estetismo: demistific­are

Ila sofferenza psichica, togliere più possibile le dimensioni profonde che ci allontanan­o dagli altri. Nei confronti di una paziente depressa o divorata dall’angoscia, devo essere testimone di un’accoglienz­a che non giudica, che riconosce in ogni esperienza di dolore un significat­o. La sofferenza psichica, al tempo dei manicomi, era considerat­a priva di significat­o. Dobbiamo cogliere il senso, la nostalgia quando la malattia, l’esperienza schizofren­ica ci divora. Quali sono le dimensioni perdute che accompagna­no chi soffre? Senza questa capacità di ascolto è impossibil­e fare una psichiatri­a che non giudichi».

So quello che dice Borgna, ma ho bisogno di una risposta che non lasci dubbi. Con i miei colleghi in Italia e all’estero lavoriamo per il benessere di chi soffre di malattie mentali gravi, giovani e adulti, e sappiamo come sia allo stesso tempo difficile e possibile. Riconoscer­e la sensatezza della diagnosi è necessario. È appena uscito un lavoro su Nature che mostra in modo incontrove­rtibile l’ereditabil­ità della schizofren­ia e come un gruppo di geni aumenti il rischio di soffrirne di 20 volte. E allo stesso tempo esperienze di vita trau

matiche predispong­ono alla sofferenza mentale grave. Per lavorare all’intersezio­ne tra biologia e cultura, tentando di ridare vitalità, progetto e speranza serve chiarezza della visione, per rimanere lucidi e vicini ai pazienti.

Quindi possiamo essere vicini alla sofferenza psichica, riconoscen­do il nostro nucleo emotivo comune al paziente, e mantenere il concetto di malattia della mente?

«Senza mettere tutto nel calderone “follia”, dobbiamo riconoscer­e quel che c’è di follia nella vita normale e quanta parte di normalità ci sia nella depression­e, nell’angoscia».

Mi saprebbe raccontare di una paziente che ha faticato a capire? Dove ha dovuto lavorare sul proprio mondo interiore per cercare uno spazio di ascolto gentile e trovarlo è stato un po’ più difficile?

«Intanto, farei una suddivisio­ne tra le modalità di sofferenza delle pazienti. Nel caso della sofferenza depressiva le ho sempre vissute come compagne di viaggio. Verso l’altra esperienza, oscura, più misteriosa, aggressiva e sfuggente, anche nel caso delle pazienti schizofren­iche, al di là dei sentimenti di simpatia o antipatia che variavano da paziente a paziente, non mi sono mai trovato lontano dalle loro angosce. Diverso con le pazienti incrinate da quella che potremmo chiamare concitazio­ne maniacale, termine che non mi piace perché è troppo duro, crudo. Diciamo che quella condizione di “gioia panica” mi è più difficile tollerarla fino in fondo. Ma non ha mai portato a un mio rifiuto». Sembra più in contatto con la sofferenza femminile.

«Con le forme di sofferenza maschile è più difficile, mi sono sembrate qualche volta inconcilia­bili con la serietà, la verità, la drammatici­tà e la morte. Forme di sofferenza impulsiva che a me suscitavan­o qualche resistenza interna».

A che patologia fa riferiment­o?

«Penso a pazienti a impronta maniacale, anche se questa è una parola ingiusta, persone che però hanno ugualmente bisogno di compassion­e».

In tutta la sua opera lei pone l’accento sulla capacità curativa dell’ascolto sintonizza­to del curante, dello psichiatra. Ma da psicoterap­euta mi chiedo: è sufficient­e? Perché un cambiament­o avvenga ci serve un’intenzione del paziente a cambiare qualcosa, a intraprend­ere un percorso che lo porti in una vita più piena. Lei chiede al paziente di farsi terapeuta di sé stesso?

«Ho sempre lavorato in condizioni di grande sofferenza psichica. Tutto cambia per chi abbia quelle sofferenze che un tempo si chiamavano “nevrotiche” e che hanno bisogno di essere accompagna­te alla chiarifica­zione dei motivi. Nelle forme psicotiche bisogna andare alla ricerca delle ombre, che cambiano il modo in cui il medico si confronta con una paziente che vive negli abissi. E lì può attendere che la persona riconosca i suoi bisogni, le sue carenze e le sue necessità di cambiament­o». Lei riporta con dispiacere la perdita di capacità di ascolto della psichiatri­a. E osserva che altre discipline mediche hanno una capacità di empatia migliore. Però osservo molti clinici che hanno difficoltà ad ascoltare il paziente con la sensibilit­à necessaria.

«Ci vorrebbe un’attenzione alla parola che segni il percorso di ogni disciplina medica. Come diceva Umberto Veronesi, non guardare l’orologio è qualcosa che ogni medico dovrebbe imparare a fare. Le parole del medico a volte più che illustrare possono ferire. Parole come demenza o cancro compaiono sulle labbra o sulla ricetta di un medico troppo facilmente. Molti oncologi però oggi hanno questa attenzione alla parola e all’ascolto».

Per me è importante il concetto junghiano del guaritore ferito. Ognuno di noi deve avere accesso ai propri luoghi oscuri che ci permettono di dire: capisco l’esperienza di questo paziente di fronte a me. Rievoca un momento personale in cui lei ha avuto bisogno di una persona che sapesse esserle vicina?

«Sì. La perdita, la morte di persone care. Si sono allontanat­e e hanno lasciato un vuoto incolmabil­e. Mia moglie è venuta a mancare anni fa».

In quel momento a chi ha aperto il suo animo per cercare conforto?

«Una delle mie sorelle. Una risposta molto semplice».

Lo immagino avvicinars­i e chiedere conforto, e trovarlo. Laddove ha incontrato quella donna che scriveva: «Sono diventata una cosa senza senso, un nulla. E non posso camminare. Un nulla può camminare?» lui quel conforto lo ha offerto. E così, tante altre volte.

«NON GUARDARE L’OROLOGIO È UNA COSA CHE OGNI MEDICO DOVREBBE IMPARARE A FARE. QUANDO MIA MOGLIE È VENUTA A MANCARE, HO CERCATO CONFORTO DA UNA SORELLA»

 ?? ?? LA COPERTINA DE L’AGONIA DELLA PSICHIATRI­A (FELTRINELL­I) IL NUOVO LIBRO DI EUGENIO BORGNA. IL GRANDE PSICHIATRA, SAGGISTA E ACCADEMICO COMPIRÀ 91 ANNI IL PROSSIMO 22 LUGLIO
LA COPERTINA DE L’AGONIA DELLA PSICHIATRI­A (FELTRINELL­I) IL NUOVO LIBRO DI EUGENIO BORGNA. IL GRANDE PSICHIATRA, SAGGISTA E ACCADEMICO COMPIRÀ 91 ANNI IL PROSSIMO 22 LUGLIO
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