CHI HA UCCISO PASQUALINA? MORIRE PER CASO IN UN PARCO
Una coltellata al cuore, una mattina di maggio, 13 anni fa: così finisce la vita della donna, 37 anni, madre di tre figli, da tempo in difficoltà. Quel giorno era lì solo perché l’avevano chiamata per una giornata di lavoro. L’esame del Dna porta a un uomo
Una donna in pausa dal lavoro viene scelta a caso per un agguato. L’omicida lascia improvvidamente il suo Dna sulla scena ma è tuttora ignoto. Tre figli sono senza madre da tredici anni e nessuno sa offrire loro neppure il tiepido conforto di un processo e di una pena.
Pena, in un’altra accezione, è la parola che suscita la storia di Pasqualina Labarbuta. Genitori immigrati dal sud, otto fratelli, una vita fin da subito complicata. Su un Corriere di inizio anni Ottanta, si legge di una sorella investita da un taxi pirata sotto i suoi occhi; a fine decennio, sempre la cronaca racconta un suo tentativo di suicidio, appena diciottenne, dopo un litigio in famiglia.
L’ULTIMO GIORNO
Anche la sua fine restituisce, insieme all’orrore, un senso di squallore: è il 6 maggio 2009, ora di pranzo di un giorno infrasettimanale. Siamo a Milano, zona Gallaratese, tra via Borsa e via Visconti, in un parchetto a nord della città che la gente del posto usa per riposarsi o per andare a spasso col cane. Arriva una chiamata al 118: una signora dice di aver visto da lontano una donna colpita da un uomo, forse accoltellata. Mentre attende l’ambulanza, telefona alla polizia e racconta di essersi trovata a spasso all’altezza del parco, di essere stata raggiunta e superata da un signore sui 40 anni con un giubbotto bianco, capelli corti e stempiato. E di aver assistito, da lontano, a uno scontro tra quell’uomo e una donna seduta su una panchina. Questione di attimi: un grido, la fuga, la vittima che si accascia.
Quando arrivano gli agenti e i soccorsi, non c’è più nulla da fare. Pasqualina Labarbuta è morta. L’autopsia evidenzierà una sola ferita mortale, sferrata con una lama monotagliente tra la seconda e la terza costola, un colpo che ha penetrato
il cuore della vittima provocandone una morte repentina per emorragia. Ma più arrivano informazioni più la faccenda si complica, perché non c’è nulla che torni: Lina, trentasette anni, tre figli e un ex compagno che vive in provincia di Brescia, non ha nemici, a parte la buona sorte. Fatica a sbarcare il lunario e, dopo la separazione, è tornata a vivere malvolentieri in famiglia. Il Comune di Milano l’ha ingaggiata a tempo determinato come sostituta in servizi di portineria nelle case popolari. E la chiamata per lavorare quel giorno in zona via Visconti, a tappare un buco, l’ha ricevuta la mattina stessa dell’omicidio: né lei, fino a poche ore prima di morire, né altri potevano sapere che sarebbe stata là. Controllando anche il traffico telefonico, si tende a escludere un agguato progettato. Che, peraltro, non avrebbe avuto molto senso: non si trova un appiglio per ipotizzare l’esistenza di una persona tanto ostile da architettarne la morte, peraltro in un momento e in un luogo platealmente inadatti a un’imboscata. L’unica testimone riesce a far disegnare un identikit, che ha una certa somiglianza con un conoscente della vittima: analizzando il suo alibi, però, la polizia lo depenna dai sospettati. Vengono vagliati ed esclusi anche i familiari e il padre dei suoi figli. Stessa cosa per una rete di conoscenze più e meno effimere che la donna ha collezionato, sia di persona sia sul web, nel tentativo di incontrare un altro uomo con cui costruire una relazione stabile. Tutti i suoi contatti hanno un alibi. Eliminata la possibilità dell’omicidio premeditato, resta in piedi quella dell’assassinio sempre volontario, ma d’impeto. Quindi o una rapina andata male, o un approccio sessuale conclusosi tragicamente. Lina amava prendere il sole, forse era stesa sulla panchina e qualcuno sperava di approfittarne.
Agli inquirenti giunge, però, un regalo inatteso: scandagliando la zona del delitto, a pochi metri dal corpo di Pasqualina si è trovato un coltello semiaperto, buttato nell’erba, con la lama macchiata di rosso. È una pattada sarda, e il fluido è sangue della vittima. È la riprova che il killer sapeva sì usare quello strumento, tanto da aver ucciso con un solo fendente, ma che era tutt’altro che un assassino preparato all’evento, se nel panico della fuga si è liberato dell’arma.
La polizia ha a che fare con una vittima improbabile, un uomo visto di spalle o poco più da una sola persona e un coltello. Un individuo si avvicina a Pasqualina, la aggredisce, scappa via e scompare, senza che altri testimoni né telecamere di sorveglianza ne catturino l’immagine. Un balordo che agisce in modo fortuito, forse: se è andata così, è il peggior scenario per chi tenta di risolvere un crimine. Intanto, il vissuto della donna si arricchisce di un dettaglio struggente: dieci giorni prima di morire, esasperata dalla convivenza con la madre e due fratelli, Lina era scappata di casa con i figli e aveva suonato al portone di un commissariato, trovandolo chiuso. Al numero di emergenza aveva raccontato, con la voce rotta, di essere una mamma con tre figli reduce da una notte passata in Chiesa, bisognosa di aiuto immediato. Era stata dirottata ai servizi sociali. A un anno dal delitto la polizia affida il coltello sardo a un genetista, che lo smonta. Nell’impugnatura viene isolato un Dna maschile. Il profilo è quello di un isolano: un individuo di sesso maschile proveniente dalla Sicilia o dalla Sardegna. L’indagine riparte ma il codice genetico non corrisponde ad alcuna persona schedata: esaminando il traffico telefonico della zona dell’omicidio e assumendo informazioni su alcuni pregiudicati, si tenta di stabilire qualche collegamento, ma senza successo. Sono gli ultimi sussulti del caso Labarbuta.
LE IPOTESI
Dopo più di dieci anni, la polizia scientifica ha fatto un tentativo ulteriore: ha mappato la scena del crimine con telecamere in 3D e ha ricostruito l’assassinio, riuscendo a stabilire con alto grado di sicurezza che il killer ha affrontato Pasqualina in piedi, di fronte a lei, e non con la vittima seduta o coricata. Facendo rientrare dalla finestra l’ipotesi di una persona che potesse aver agito con uno scopo preciso, e non a caso. Ma sono ipotesi. Come ipotesi non realizzabile è la via della genealogia forense: negli Stati Uniti sono stati risolti casi confrontando il Dna di un ignoto con quelli conservati in banche dati anche commerciali, che hanno stabilito profili di parentela su cui poi si è potuto indagare. Ma in Italia non funziona così: la banca dati nazionale del Dna presso la direzione centrale della polizia di Stato è l’unica autorizzata dalla legge per fini forensi, e si può alimentare solo con le risultanze di scene del crimine o con soggetti schedati perché fermati o arrestati per certi reati. E non si possono inserire questi profili in archivi genetici non autorizzati per indagini di polizia: sia perché le altre banche non sono così robuste da contenere ampie campionature della popolazione, sia perché conservano profili raccolti con altri metodi, magari meno precisi, che potrebbero quindi fornire valutazioni di massima su legami e parentele, basate su algoritmi matematici. Va bene per i film, insomma, non per la realtà: se il killer dal Dna schedato non tornerà a delinquere, toccherà rassegnarsi a non sapere chi ha ucciso Lina, e perché.