«LA MILANESIANA (CHE SI APRE DOMANI) NON È COME PRENDERE UN TÈ IN GIARDINO»
I pregiudizi sulla città che non ha tempo e la rivalità con Roma, il ruolo del fratello Vittorio, l’«errore di giovinezza» di Massimo Cacciari, la Nobel Herta Muller che sbatte la porta... Elisabetta Sgarbi, che ha ideato e dirige la manifestazione, racconta i suoi primi 23 anni
ondurre un festival per 23 anni è un osservatorio sui cambiamenti. Fare un festival è un confronto costante non solo con gli artisti ma con enti pubblici, imprenditori e atmosfere culturali.
Era il 1999. C’era Roma, che viveva la sua stagione più limpida e audace. Sembrava che, oltre che capitale politica, ambisse ad essere capitale culturale, non solo perché ricca di testimonianze artistiche e storiche ma perché aveva capito che la cultura meritava importanti investimenti. E poi c’era Milano, affetta da pregiudizi: «D’estate Milano si svuota perché hanno tutti le seconde case; a Milano si lavora e non c’è tempo per altro, salvo gli impegni comandati, comunque non oltre la fine di maggio».
Correva l’anno 1999, dunque. Milano e Roma vivevano due atmosfere culturali diverse, complice una netta contrapposizione politica. A Milano era sindaco Gabriele Albertini, la Regione era guidata da Roberto Formigoni e la Provincia di Milano (c’erano ancora le Province, ci sono anche oggi, ma non si capisce bene cosa facciano) era guidata da Ombretta Colli.
A Roma c’era il centro sinistra, come al governo del Paese. Insomma, due mondi: Roma un po’ cicala, gioiosa, rossa, Milano formica operosa, azzurra. D’Alema, Veltroni, Prodi da una parte, Berlusconi dall’altra. Guerra fredda, guerra di religione, girotondi (di lì a poco).
E poi c’era mio fratello. Mio fratello c’è quando si vede, come noto, ma c’è anche
quando non si vede, perché è sempre stato un grande tessitore. Mi chiama e mi dice: l’assessore allo sport della Provincia di Milano, Cesare Cadeo (già volto di Mediaset) vuole parlarti e mi ha chiesto il tuo numero (mio fratello dà a chiunque lo chieda il mio numero). Col mio carattere da riccio, allora molto più spigoloso, devo avergli mostrato tutto il mio sospetto, un po’ snob lo ammetto (anche io vittima di pregiudizi). Ma lui mi ingiunse di essere almeno educata e di rispondere, con fare da fratello maggiore.
Ombretta Colli e Cadeo volevano dare vita a un festival (ma nel 1999 la parola era poco di moda) nella sede del cortile di Palazzo Isimbardi, in via Vivaio — dove Scerbanenco ha ambientato una delle storie più efferate del suo Centodelitti, e sede di uno straordinario affresco di Tiepolo. E io sembravo loro la persona adatta, per i miei molti interessi. Non ne ho mai avuto conferma, ma ritengo che il mio nome sia stato suggerito a Ombretta Colli da Franco Battiato, storico frequentatore di casa Gaber, e persona con cui avevo da anni instaurato un rapporto di amicizia profondo. Spesso, quando era a Milano, cenavamo, insieme con il fidato Said, a base di riso basmati, e ci si congedava prestissimo perché Franco aveva l’abitudine di svegliarsi al primo mattino per meditare.
Da destra veniva una proposta culturale a una eccentrica donna di sinistra, benché non schierata e anzi un po’ sfuggente alle definizioni.
Accettai con molte reticenze, convinta che sarebbe finito tutto molto presto, che il programma non sarebbe mai stato accettato da persone abituate alla televisione (quanti pregiudizi). E poi a Milano non si fanno festival; e d’estate non ci sono i milanesi disposti a farsi pungere da furenti zanzare. Dedicai alla Poesia la prima edizione (tanto la poesia non vende), con il titolo Sulle spalle dei giganti. Ovviamente — poiché la vita si incarica di sfrondare i nostri pregiudizi — fu un successo, i milanesi non andarono al mare e si riversarono a Palazzo Isimbardi, insieme alle zanzare.
Ho sempre goduto di piena libertà dalla giunta Colli. Ebbi qualche scontro, certo, ma contenuto e (quasi) mai sui soldi (allora sembravano essercene a sufficienza, altro segno di un’epoca lontana). Ombretta ogni tanto esternava qualche preoccupazione per la troppo nutrita presenza di intellettuali di sinistra e non di destra. Avemmo un piccolo diverbio quando lei rilasciò una intervista e, parlando della Milanesiana, la paragonò alla elegante, ma ai miei occhi sbiadita, immagine di un tè in giardino («Ma come» le dissi «io porto Eco, Battiato, Muti, Bene, Houellebecq e per te è come prendere un tè in giardino?»). Ma in fondo accettava le mie proposte, contenta del successo, con l’orgoglio che dettava la misura degli investimenti. A lei si deve il nome Milanesiana, da me accolto con sospetto, ma che ora è parte di me.
L’atmosfera culturale intorno si faceva sentire. Furoreggiava la battaglia: il quotidiano Libero apostrofò la Milanesiana come «un baraccone di sinistra». E, mentre Umberto Eco e Franco Battiato si appassionavano alla Milanesiana, non mancando mai a nessuna edizione, incuranti del colore politico, alla seconda edizione Massimo Cacciari — che conosceva meno me e la Milanesiana —, invitato con Susan Sontag, mi sussurrò prima dell’incontro: «Se avessi saputo che era promossa dalla Provincia di Milano (scilicet di destra) ci avrei pensato bene prima di accettare» (ne abbiamo riso insieme qualche tempo fa, come ricordando errori di giovinezza).
Nel 2004, Filippo Penati e il centro sinistra strapparono la Provincia alla Colli, alla Cultura andò Daniela Bonelli. E mentre assistevo ai festeggiamenti, mi chiedevo: peserà di più la mia “collusione” con il centrodestra o i miei meriti? Smonteranno tutto?
Invece si aprì una stagione di dialogo nella operosa Milano, tra il centrosinistra della Provincia e il centrodestra del Comune, prima con Salvatore Carrubba — che trascinai nella Milanesiana — poi con mio fratello Vittorio, assessore di una prima fase della Giunta Moratti, che — ripetendo uno schema dei nostri giochi da piccoli, lui Toro Seduto, io indiano semplice — tradiva il desiderio del Comune di impadronirsi della Milanesiana (ma meglio essere oggetto di desiderio che materiale di scarto).
Teatri pieni, la Scala aperta per la Milanesiana, l’Arcimboldi per ascoltare Eco e i Berliner, Eco e Battiato che facevano scouting per la Milanesiana nei loro viaggi all’estero. La guerra fredda rimaneva sullo sfondo. La crisi economica del 2008 sembrò colpire più l’attività culturale di Roma che quella di Milano, che invece attraeva partner privati.
Nasceva la Fondazione Corriere della Sera e Piergaetano Marchetti, che andai a trovare per la prima volta nel suo ufficio in via Solferino, non esitò a contribuire al Festival.
Arriviamo al 2011. La Provincia era sempre più una istituzione sbiadita, lontana dall’orgoglio mostrato dalle stagioni di Colli e Penati. Era tornata al centrodestra ma aveva ridotto gli investimenti, prossima a raggiungere la sua attuale esistenza umbratile. Giuliano Pisapia vinceva le amministrative contro la Moratti, donna di grandi qualità che però fece l’errore, in quel frangente, di appiattirsi su Forza Italia, in un momento in cui andava rivendicata l’autonomia di un sindaco capace che aveva conquistato l’Expo.
Mi feci la stessa domanda di qualche anno prima: ora che il Comune fa la parte da leone, pagherò la mia vicinanza alla precedente amministrazione comunale, di destra?
La Milanesiana vacillò, anche per due episodi. Nell’edizione 2011 il Premio Nobel Herta Müller si risentì perché concessi a Claudio Magris più spazio che a lei. Un equivoco nei mesi della preparazione dell’incontro, ovviamente, ma la scrittrice, finito di leggere, anzi interrompendo la lettura, non andò al posto ma lasciò il teatro, accompagnata da Carlo Feltrinelli. Errore mio ci fu. Non ricordavo che Claudio Magris, in Danubio, non usò termini elogiativi per lei. Ma al tempo della mia lettura di Danubio, non
Elisabetta Sgarbi, che è alla guida creativa e operativa de La Milanesiana dal 2000, qui con il fratello Vittorio. In queste pagine le 23 declinazioni, una per edizione, del logo: una rosa disegnata da Franco Battiato sapevo nulla di Herta Müller e rimossi quei commenti.
E poi ci fu l’episodio Dell’Utri. Non capii che quell’atmosfera culturale di collaborazione tra parti diverse stava finendo. Dietro la Biblioteca di via Senato del senatore di Forza Italia, c’era un delizioso teatrino, di verzura. Quando mi chiese cosa poteva farne, io gli proposi di portarvi gli incontri di filosofia della Milanesiana. Piovvero attacchi, da filosofi e da giornalisti.
La Milanesiana ancora oggi dura, lievita e balla come recita la sigla del Festival composta da Extraliscio, Il ballo della Rosa. Cosa ho imparato da queste come da tante altre vicende? A diffidare delle “atmosfere culturali”, dei miei pregiudizi come di quelli altrui, che possono essere velenosi e portatori di illusioni ottiche paralizzanti. E che ci sono persone che, pur dentro diversi ruoli e parti politiche, sono portatori di una visione culturale che fa la storia, in ruoli più o meno visibili, e che rispondono alla domanda di Brecht: Tebe dalle sette porte, chi la costruì? E queste persone — a iniziare dalle prime del Comitato editoriale, che in parte ancora resiste, Eugenio Lio, Anna Maria Lorusso, Chiara Spaziani, Oliviero Toscani, Carlo Prosperi — hanno il merito di diradare le nostre nebbie. E poi mia madre e mio padre. Appassionati alla Milanesiana, più che ad ogni altra conquista editoriale: per assistere a un incontro importante, anche molto avanti negli anni, partivano da Rho in macchina, per tornarci la sera stessa, dopo l’incontro, spesso dopo la cena, a notte fonda. E al mese di febbraio circa, la Rina, che sembrava disattenta su quanto mi riguardava, mi chiedeva puntualmente e per pungolarmi: «Quest’anno non si fa la Milanesiana?». Ogni febbraio attendo ancora di sentire quella domanda.
La guerra è, ora, il nostro orizzonte, anche se volessimo chiudere gli occhi. Lo è dal punto di vista politico e economico, ma lo è anche da quello più strettamente culturale. E chi, come noi, lavora con e sulle parole, con e sull’espressione artistica, non può non interrogarsi sul valore e sull’importanza delle parole: cosa dire e non dire; cosa potere e volere dire e cosa no. Cosa avremmo potuto dire e fare e non abbiamo potuto o voluto o saputo fare. Ecco l’origine della complessità di questo tema: Omissioni. Dire e Non Dire. Sarà una Milanesiana che viaggia in più di venti città, ma con un maggiore radicamento a Milano (e in molti luoghi della città, più o meno centrali). Tornano artisti di altri continenti, le frontiere si riaprono, dopo due anni di chiusure obbligate. E, infine, c’è — tra le altre — la letteratura russa, di una scrittrice, Ludmila Ulitskaya, che dialogherà con scrittrici di altre latitudini culturali, come è giusto e normale che sia. Lei vuole la Pace (al singolare), che in questo momento vuol dire almeno questo: sapere che c’è un aggressore e un aggredito.