Corriere della Sera - Sette

L’ETERNO INVERNO DEMOGRAFIC­O DI UN’ITALIA DOVE I FIGLI SONO ANCORA «COSE DA DONNE»

- DI SILVIA AVALLONE

Avete mai chiesto a un uomo o – se siete uomini – a voi stessi, di rinunciare al lavoro per crescere i figli? Al tempo libero, alle amicizie? Vi siete mai trovati costretti a una scelta tra una parte e un’altra di voi? Credo di no. Perché questa domanda – o minaccia di amputazion­e – è considerat­a «cosa da donne».

Con la scusa del corpo – gravidanza, allattamen­to: fasi assai temporanee – veniamo spinte di lato rispetto a noi stesse per far spazio solo alla maternità, in solitudine. Non per un breve periodo. A volte per sempre. Ma i figli sono «cose da donne»?

Sentiamo parlare spesso donne che li desiderano fermamente. Sempre più spesso, per fortuna, udiamo anche la voce di quelle che non li desiderano. Più di rado ascoltiamo i dubbi di chi non lo sa: che potrebbe rimpianger­e di non averli messi al mondo come di averlo fatto. Perché il gioco qui implica sempre perdere un pezzo: la propria autonomia o il legame con un figlio. Dove uno degli aspetti più dolorosi è che libertà personale e genitorial­ità non sono nemiche: anzi, sarebbero ottime alleate l’una dell’altra.

Però non sentiamo quasi mai il racconto dei desideri e timori maschili rispetto ai figli. Agli uomini la società neppure chiede di porsi il problema. Il peso delle domande, del rischio, è tutto sulle spalle delle donne. Ma i figli non sono delle madri più che dei padri. Eil mondo del lavoro non è territorio degli uomini più che delle donne. Non suonerebbe ovvio che, con l’arrivo di un bambino, entrambi debbano avere lo stesso tempo per prendersen­e cura e per dedicarsi ai propri sogni?

Se il mondo del lavoro lo consentiss­e, sarebbe infinitame­nte più semplice affrontare i primi anni di vita di un bambino in due, con tutte le notti insonni e i malanni. Immaginate con quanta energia le madri potrebbero lavorare senza immolarsi o a un certo punto dimettersi. E immaginate gli uomini con l’opportunit­à di essere padri in un modo diverso.

Non trasmetter­e il cognome, dettare le regole, provvedere al sostentame­nto com’è stato finora. Bensì esserci: presenti il lunedì mattina quando il termometro segna 38,5, presenti per fare la spola dalla scuola alla palestra, nell’ascolto, nella cura, e in tutta quella messa in discussion­e di sé stessi che la genitorial­ità comporta. Sarebbe un bel modo di far saltare dall’interno, attraverso l’empatia, quella declinazio­ne tossica del maschile che ancora genera tanta violenza.

Ogni volta che leggo un articolo sull’inverno demografic­o penso: per forza. Non si può continuare a chiedere esclusivam­ente alle donne di soffocare la propria indipenden­za per i figli. Che nel giro di pochi anni crescono. Che devono poter spiccare il volo lontano da casa. E poi in quella casa chi rimane, da sola?

Le discrimina­zioni non portano ad altro: sofferenza, inverno. Ma se le annullassi­mo sarebbe la liberazion­e. Famiglie più serene. Mondo del lavoro più equo. Società più giusta, e felice. Non aspettiamo.

SE IL MONDO DEL LAVORO LO CONSENTISS­E, NON SAREBBE PIÙ SEMPLICE AFFRONTARE IN DUE I PRIMI ANNI DELLA LORO VITA?

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