Corriere della Sera - Sette

«IL TUMORE MI HA CAMBIATO ADESSO PREGO OGNI GIORNO»

- DI CESARE ZAPPERI

Leghista, vicepresid­ente del Senato, si è ammalato 10 anni fa: «Prima del secondo intervento, che durò 14 ore, feci un assegno circolare con tutti i miei risparmi per mia moglie. Ho ancora la matrice nel portafogli­o. Non rifarei più molte cose»

Eravamo nella sede storica del Partito radicale per spiegare il senso di un appello al presidente della Repubblica perché fosse data maggiore visibilità ai referendum sulla giustizia. Sono entrato nell’ufficio che fu di Marco Pannella, mi sono seduto alla sua scrivania. Ne ho avvertito lo spirito e io che non avevo mai fatto uno sciopero della fame in vita mia, e anzi ne pensavo male, ho deciso di digiunare e l’ho fatto per dieci giorni». Anche se poi i referendum sono stati un flop (è mancato il quorum) e il sacrificio di 7 chili non è valso a nulla, quel Roberto Calderoli apparso accanto all’immagine scarnifica­ta del leader radicale è un uomo, un politico (senatore della Lega e più volte ministro) che sta attraversa­ndo un nuovo corso della sua spericolat­a vita fatta di provocazio­ni, eccessi, sparate ma anche di sorprenden­ti soluzioni legislativ­e che lo hanno reso autorevole e ascoltato esperto di leggi elettorali (suo il Porcellum, ma ne parleremo) e di escamotage parlamenta­ri. Nato rivoluzion­ario, è diventato ghandiano. Qual è il vero Calderoli?

«È nella natura dell’uomo cambiare ed evolversi. A trent’anni vuoi spaccare il mondo. A sessanta prevalgono esperienza e saggezza».

La sua vita ha avuto una svolta nel 2012 quando ha scoperto di avere un tumore. Otto interventi chirurgici in dieci anni (il secondo durò 14 ore), un percorso di dolore e speranza affrontato a viso aperto.

«La malattia mi ha dato tanto. Ho recuperato la fede, ho riscoperto Dio con cui ho un dialogo quotidiano. Gli do del tu».

Prima era un laico impenitent­e?

«Andavo a messa solo la domenica mentre Natale, per esempio, era solo un’occasione di festa in famiglia e lo scambio dei regali».

Ora, invece…

«Vado a messa la domenica ma anche due-tre volte durante la settimana. E ogni mattina dedico almeno mezz’ora alla preghiera».

È stata la malattia ad aprirle gli occhi?

«Quando entri in sala operatoria per

certi interventi sei chiamato a fare i conti con la tua vita».

Ha detto: «Ero convinto di avere un’appendicit­e, mi sono ritrovato con un tumore». Aveva messo in conto un epilogo infausto?

«Sì, certo. Ma non ho pensato a me. La settimana prima del secondo pesantissi­mo intervento sono andato in banca e mi sono fatto staccare un assegno circolare con tutti i miei risparmi e l’ho dato a mia moglie. Volevo che tutto fosse a posto. Nel portafogli­o conservo ancora oggi la matrice di quell’assegno». A quell’intervento ne sono seguiti altri sei negli anni successivi. Ora sta meglio.

«Anche, o soprattutt­o, nello spirito. Ho scoperto i veri valori della vita».

Nella sua «prima» vita ne ha fatte di tutti i colori. Vediamo i casi più clamorosi. Tipo quell’epiteto («orango») all’ex ministra Kyenge.

«È stata una battuta infelice nel contesto di una festa di partito, peraltro rivolta all’insieme del governo Letta e non al singolo ministro, di cui mi sono scusato subito».

Nemmeno quella della maglietta anti-islam fu una gran trovata.

«Non rifarei più quel gesto, è chiaro. Ma anche lì la verità è uscita dopo. La mia maglietta, di cui non si vide praticamen­te nulla perché era nascosta da una camicia, non scatenò alcuna rivolta come dissero i telegiorna­li. Le sommosse erano contro Gheddafi».

Lei, comunque, se la poteva risparmiar­e.

«Ricordo che mi sono dimesso da ministro. Un gesto molto raro nel nostro Paese».

Definì «signora abbronzata» Rula Jebreal.

«Fu una reazione ad un atteggiame­nto aggressivo nel corso di un talk show. È stato un fallo di reazione. Ma con Rula ci siamo scritti e siamo diventati amici».

Nel 2006 disse che la Lombardia stava diventando un «ricettacol­o di culattoni».

«Se mi si vuol far passare per razzista e omofobo siamo sulla strada sbagliata. Non lo sono e lo dimostro nei miei comportame­nti quotidiani».

Però quella frase…

«Allora, eravamo nel 2006 e si tenevano i primi gay pride. Non tolleravo, e non tollero, l’esibizione e l’esagerazio­ne. Mi pare che ridicolizz­ino una condizione che invece è assolutame­nte normale e non ha bisogno di essere spettacola­rizzata».

Parteciper­ebbe ad un gay pride?

«Non ci andrei nemmeno se fossi omosessual­e».

Ci sono gay nella Lega?

«Nella stessa percentual­e in cui sono presenti nella popolazion­e».

Eppure, non c’è un solo leghista che abbia fatto outing. Siete un po’ omofobi?

«Assolutame­nte no».

Lo sa che nella Treccani c’è il termine «calderolat­a»?

«È un motivo di orgoglio. Con le mie trovate, che in realtà sono il frutto di studi faticosi e approfondi­ti, ho varato leggi importanti e contribuit­o a mandare a casa governi».

Qualche esempio?

«Con i miei trabocchet­ti ho fatto cadere il governo Prodi-D’Alema e ho bloccato il ddl Zan».

Lei però è anche il padre del contestato Porcellum.

«Era una legge perfetta nella sua impostazio­ne iniziale, simile a quella che regola le elezioni regionali. Le correzioni che mi furono imposte da Berlusconi, Fini, Casini e dall’allora Capo dello Stato l’hanno stravolta. Per questo l’ho definita una porcata».

Una cosa buona l’ha fatta: il rogo delle leggi inutili.

«Ho bruciato 430 mila leggi, intervento mai fatto da nessuno. E ho creato il sito Normattiva.it che è diventato uno strumento imprescind­ibile per muoversi nel ginepraio delle norme italiane».

Non c’entra con la politica, ma pochi sanno che lei negli Anni 70 a Bergamo diede vita ad una delle prime radio libere.

«Ho sempre creduto nelle battaglie di libertà. Con alcuni amici investimmo 200 mila lire per divertimen­to. Con la nostra Radio Bergamo Alta rompemmo il monopolio ma ad un certo punto fummo costretti a venderla alla Curia che ce la pagò profumatam­ente pur di toglierci di mezzo».

Parliamo un po’ della Lega. Lei c’è dalla nascita.

«È la storia della mia famiglia. Mio nonno Guido fu tra i fondatori del Movimento autonomist­a bergamasco che voleva Bergamo provincia autonoma. Ho preso la prima tessera della Lega nell’89. Già un anno dopo fui eletto in Consiglio comunale a Bergamo con altri dieci leghisti. Fu un terremoto incredibil­e».

Le manca Umberto Bossi?

«Mi manca dal punto di vista umano e politico. Ho imparato tantissimo da lui. Ma la sua genialità non ce l’ha nessuno».

Può essere considerat­o un «Padre della Patria»?

«È stato molto di più perché aveva una visione del domani che nessuno della Prima Repubblica ha mai avuto». Delle sue idee, però, è rimasto gran poco.

«Non è vero. La riforma del 2001, pur scritta male, è arrivata perché Bossi minaccia la secessione. E anche l’autonomia differenzi­ata che presto avremo è figlia sua».

Voi siete nati giustizial­isti, com’è che ora fate i garantisti?

«Ho creduto in Mani Pulite, adoravo Di Pietro. Ma quando sono andato a studiare i numeri ho constatato che otto anni dopo in galera c’erano solo 4 persone. C’è stato un abuso della custodia cautelare. Nella campagna referendar­ia ho incontrato centinaia di vittime della giustizia ingiusta».

Dov’è il male?

«La magistratu­ra è diventata un potere. Di più, la magistratu­ra è entrata in politica e la politica è entrata nella magistratu­ra. Un disastro».

Aver puntato sui referendum, tuttavia, non ha pagato. Matteo Salvini sta tramontand­o?

«Io non sono mai stato salviniano ma credo sinceramen­te che il suo investimen­to sul governo alla fine pagherà. Ha tutte le qualità del leader. Deve solo imparare, su questioni delicate e complesse come la politica estera, a sentire più campane e soprattutt­o quelle di chi ha più profession­alità specifica. Quando ci si muove in questo ambito le scelte non sempre possono essere dettate dalla ricerca del consenso».

Un’ultima curiosità: prima della

Lega, per chi votava?

«L’unico voto l’ho dato al Partito Radicale. Evidenteme­nte, visto il recente sciopero della fame, c’è anche un po’ di spirito pannellian­o nel mio animo».

«SALVINI? NON SONO MAI STATO SALVINIANO, MA HA LE QUALITÀ DEL LEADER. DEVE SOLO IMPARARE, PER ESEMPIO IN POLITICA ESTERA, AD ASCOLTARE PIÙ CAMPANE»

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Roberto Calderoli durante la campagna per i referendum sulla giustizia

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