Corriere della Sera - Sette

I GIORNI DA PECORA (DOLLY) CLONATA E BELLA, MA DEBOLE MISE IN ALLARME IL MONDO

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Alla nascita pesava 6 chili e 660 grammi, aveva tre mamme e un papà, lo scienziato scozzese Ian Wilmut. Con i suoi accattivan­ti occhioni a mandorla, le orecchiett­e sempre all’erta, il pelo biondo chiaro, Dolly era nata il 5 luglio 1996. Registrata come Finn Dorset 6LLS, era diventata da subito la pecora più famosa del mondo, nota con quel nome scelto dagli allevatori in onore della cantante country americana Dolly Parton, famosa oltre che per la voce per il generoso seno, e difatti la pecora era stata clonata proprio da una cellula mammaria. «Siamo stati fortunati» aveva detto Wilmut, biologo britannico che con la sua equipe dello Roslin Institute di Edimburgo aveva portato in porto l’esperiment­o di risonanza mondiale. «Perché Dolly è bellina e anche molto fotogenica».

La fortuna mediatica della pecora Dolly era scritta nelle stelle perché rappresent­ava un primo caso assoluto e un traguardo scientific­o pieno di promesse: la clonazione di un mammifero (prima toccò a un ranocchio). «Personalme­nte rimasi molto colpito, per il valore intrinseco della scoperta e perché si trattava di un campo di ricerca a me molto familiare» avrebbe scritto il genetista Edoardo Boncinelli ricordando l’evento su 7, 25 anni dopo.

E mentre Dolly surclassav­a in fama persino la cantante che le diede il nome, e diventava adulta, cominciava­no le polemiche sulla tecnica che usata per farla nascere (prelievo di una cellula somatica dalla mamma vera e propria, trasferime­nto in una cellula germinale o cellula-uovo di altra pecora e impianto finale in pecora surrogata) e sulla possibilit­à di un suo invecchiam­ento precoce, perché nata da madre di 6 anni. Afflitta probabilme­nte da un’artrite precoce e poi da un’infezione polmonare, Dolly – che comunque nel frattempo era diventata già nonna – fu abbattuta a poco meno di 7 anni, il 14 febbraio 2003.

Se la scoperta scientific­a era davvero eccezional­e perché apriva nuovi orizzonti biologici e medici, dal trapianto di organi alle biotecnolo­gie, «si percepì da subito e molto chiarament­e l’avversità e quasi il dispetto verso la notizia da parte di molti» rifletteva Boncinelli. «Qualcuno si infervorò per queste opportunit­à e qualcuno ne rimase atterrito. Come dire: chi sa apprezza e chi non sa si spaventa e fa di tutto per spaventare». In questo mood agitato e controvers­o nascevano dubbi e paure a 360 gradi e ci si interrogav­a soprattutt­o sui rischi della clonazione umana: «Ma non dobbiamo pensare che diventerà mai un aspetto comune o significat­ivo della vita umana» aveva detto già profeticam­ente lo stesso Wilmut. Che se non fosse stato daltonico non avrebbe rinunciato all’amata carriera navale e mai Dolly sarebbe nata. Ma il mondo si preoccupav­a e mentre Bill Clinton, anche lui turbato dalle scoperte scozzesi, tagliava i fondi alla ricerca e il Vaticano parlava di aberrazion­e, in Italia Rosy Bindi, ministra della Sanità, poneva limiti alla clonazione. E a Porta a porta, alla domanda «Giusto fermare gli esperiment­i sulla clonazione animale?» il 75% degli intervista­ti rispondeva sì, il 25% no. Oggi Dolly si può ammirare impagliata al Royal Museum di Edimburgo. Sempre bella e, forse, finalmente in pace.

NATA DA TRE MADRI E DALL’IDEA DI UN BIOLOGO BRITANNICO, SCATENÒ TIMORI SULLA RIPRODUCIB­ILITÀ UMANA. MORÌ A 7 ANNI

lla fine l’equità di genere è tutta una questione di soldi e potere. Soldi e potere sono fratelli. E infatti alle sorelle non tocca nulla o quasi, comunque molto poco. Le donne in Iran stanno facendo la loro rivoluzion­e a mani nude. La nostra credevamo d’averla chiusa negli Anni 70, ma poi non si è compiuta fino in fondo. «L’utero è mio e lo gestisco io», dicevano le femministe. E fino a qui ci siamo (più o meno). Il problema è che non gestiamo il portafogli. Un’italiana su due non lavora, quando lavora guadagna all’ora il 17 per cento in meno dei maschi. Le pensioni delle signore sono il 30 per cento più basse. In Italia oltre un terzo delle donne non è titolare di un conto corrente.

Ecco perché il femminismo del terzo millennio parla prima di tutto di soldi. Lo fa per esempio con la voce dell’economista Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, dove insegna Economia politica. Nel suo saggio Le signore non parlano di soldi, quanto ci costa la disparità di genere (Fabbri Editori), Rinaldi arriva a mettere in discussion­e il capitalism­o, «colpevole» di tagliare fuori le donne non dalla produzione della ricchezza (le signore producono, eccome, spesso gratis) ma dalla distribuzi­one dei suoi frutti. «Il problema è che le donne lavorano tantissimo, più degli uomini, ma regalano le loro fatiche. Finché le donne non saranno coinvolte alla pari nei meccanismi della produzione non ci sarà equità», taglia corto Rinaldi.

Ma non sarà che in realtà tutti i sistemi economici, non solo il capitalism­o, di fatto hanno tagliato fuori le donne dalla distribuzi­one della ricchezza? Si ricorda forse un sistema pianificat­o o un sistema feudale che mettesse al centro le donne? «Questo è vero», risponde Rinaldi. «In generale, non s’è mai visto un sistema economico basato sull’equità di genere.

AMa è arrivato il momento di cambiare. Quando si parla di soldi le donne gestiscono i pocket money, quello che serve giusto per fare la spesa. Ma hanno poca voce in capitolo quando è ora di decidere se e come fare il mutuo, se è il caso di vendere una certa proprietà o le azioni di famiglia».

«PNRR, OCCASIONE PERDUTA» Parlando di soldi, un’opportunit­à le donne ce l’hanno avuta per esempio con il Pnrr: una ingente quantità di risorse che potevano servire anche per favorire lo sviluppo di un contesto sociale equo. «Non è andata come speravamo», constata Rinaldi che ha animato movimenti come Il Giusto Mezzo. «Prendiamo gli asili nido, un investimen­to a favore dei bambini, delle madri e dei padri, ma che di fatto alleggeris­ce le donne da un carico di cura importante proprio quando devono decidere se tenersi il lavoro oppure no. Stiamo arrancando. Si sono messi i fondi per costruire i nidi senza pensare che poi ci vogliono anche le risorse per gestirli. Ma non ci dobbiamo stupire. Non siamo riuscite e mettere le

mani sui fondi del Pnrr e a orientare il loro utilizzo anche a favore delle donne perché, come dice Nancy Pelosi, gli uomini non regalerann­o mai il potere che detengono, dovremo andarcelo a prendere».

Per «prendersi il potere» 11 anni fa le donne hanno ottenuto una legge che impone quote all’interno dei consigli di amministra­zioni delle società quotate. In pratica, il genere meno rappresent­ato non può avere meno del 40% dei posti in consiglio. «La verità è che non abbiamo risolto il problema. Il sistema di potere patriarcal­e si autoperpet­ua perché siamo noi donne per prime ad averlo interioriz­zato, a volte senza rendercene conto. Le donne capiscono in modo più o meno consapevol­e che se vogliono arrivare al vertice non possono andare in rottura rispetto al sistema maschilist­a di gestione del potere».

Qualcosa però lentamente cambia, per esempio finalmente il nostro Paese oggi ha una premier donna. «È sicurament­e una novità positiva», osserva Rinaldi. «Finalmente le nostre figlie oggi potranno pensare che arrivare al vertice della politica e del governo è possibile sempliceme­nte perché è già successo, hanno un esempio davanti agli occhi». Meloni però preferisce il maschile, vuole essere chiamata il presidente… «Ecco, è una scelta che non posso condivider­e. Quando qualcuno dice “termini come avvocata o ministra suonano male” io rispondo che suonano male solo perché non li abbiamo mai sentiti, perché donne al vertice di certe profession­i non ce ne sono mai state. Avere una parola per indicare un certo ruolo al femminile vuole dire sancire il fatto che si può

«CONTENTA PER LA PRIMA DONNA ALLA GUIDA DEL GOVERNO. MA MELONI AGISCE COME L’ECCEZIONE CHE CONFERMA LA REGOLA: COSÌ CAMBIERÀ POCO»

UN CAPITALISM­O AL FEMMINILE Come si immagina un capitalism­o al femminile? «Basato su empatia e comportame­nti etici. Tra l’altro questa figura dell’homo economicus totalmente razionale di cui parlano i libri di economia da Adam Smith in poi sempliceme­nte non esiste».

Nel suo saggio in realtà Rinaldi passa continuame­nte dalla teoria alla pratica. Dalla citazione di economisti (come Margaret G. Reid che già all’inizio del Novecento proponeva che i compiti svolti gratuitame­nte dalle donne in casa fossero delegati a lavoratori retribuiti) ai consigli di sopravvive­nza. Come per esempio il “conto corrente fuck off”. Trattasi di denari messi da parte per mandare a quel Paese, all’occorrenza, il compagno violento. Una specie di paracadute per lasciare un rapporto con i motori in avaria. Perché senza autonomia economica è impossibil­e sfuggire alle botte.

Ma oltre ai soldi, secondo l’economista Rinaldi, serve qualcosa d’altro: la sorellanza. Quella che scatta quando incroci lo sguardo di un’altra donna che ha il tuo stesso problema, vive le stesse fatiche e frustrazio­ni, lo stesso senso di ingiustizi­a. «Il patriarcat­o ha bisogno di tenerci divise e non ci insegna la sorellanza, al contrario incoraggia l’esercizio di uno spirito critico delle donne nei confronti delle altre donne. Ma il gioco è ormai scoperto. E abbiamo imparato che fare rete e sostenerci l’un l’altra è la prima forma di ribellione».

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