IL «DOPPIAGGESE» IN TV CHE CONTAMINA IL PARLATO CON I «FALSI AMICI» INGLESI
Caro Antonelli, la vita mi ha portato a fare il regista, ma la mia educazione da liceo classico e una laurea in angloamericana mi rendono particolarmente sensibile ai fenomeni linguistici. Volevo condividere un’osservazione che ho fatto guardando film e telefilm. Nella stessa puntata di una serie, due attori entrano in un colombario e lo chiamano «mausoleo»; poco dopo, un investigatore dice che una certa merce non era presente nel «manifesto» della spedizione, cioè nella distinta. Non siamo solo di fronte al solito complesso di inferiorità verso l’inglese, per cui challenging («impegnativo») è diventato sfidante, aggettivo che in italiano non esisteva. La mia impressione è che i traduttori, presumibilmente sempre più giovani, semplicemente non abbiano idea di cosa significhi una parola perché non hanno avuto esperienza della cosa.
DI «DOPPIAGGESE» era già capitato di parlare in questa rubrica, ricordando Alberto Arbasino che (non del tutto a ragione) viene a volte identificato come il coniatore della definizione. Comunque lo si voglia chiamare – doppiaggese o traduttese o traduttorese – questo tipo di italiano passivamente adagiato sul modello della lingua di partenza (ormai quasi sempre l’inglese) ha condizionato il nostro modo di esprimerci. Da lì si sono diffusi, ad esempio, usi come «esatto!» o «puoi scommetterci!» o «non c’è problema!». Ora è particolarmente interessante che a riportare qui l’attenzione sul tema sia un regista del calibro di Davide Ferrario.
Qui pro quo
È lui stesso, in un’altra parte della lettera, a segnalare il modello inglese che spiega i due errori di traduzione: rispettivamente mausoleum e manifest. In entrambi i casi si tratta di «falsi amici»: parole uguali o simili che nelle diverse lingue hanno significati diversi. Manifest, infatti, ha in inglese anche il significato di «distinta» o «bolla» o «polizza» di carico. L’etimo di mausoleum (e di mausoleo) rimanda alla tomba del satrapo di Caria – Mausolo, appunto – anticamente considerata una delle sette meraviglie del mondo. Come spiega il dizionario Collins, nell’«american english» la parola è usata non solo per riferirsi a una tomba monumentale, ma anche al luogo dove vengono seppelliti i corpi di diverse persone (anche se spesso, si specifica, per una singola famiglia). Colombarium era nell’antica Roma una camera sepolcrale nelle cui pareti erano scavate in più file nicchie per contenere le urne cinerarie. Nei moderni cimiteri, la parola (per il dizionario De Mauro di uso «comune») è usata per le costruzioni con serie di loculi sovrapposti gli uni agli altri. Alla base del nome, già in latino, la somiglianza con una colombaia.
A proposito di latino, vale la pena citare qui in chiusura lo spunto a cui Ferrario dedica il post scriptum della sua lettera. L’espressione quid pro quo, utilizzata in inglese per riferirsi a uno scambio di reciproco interesse, andrebbe tradotta da noi come do ut des e invece è spesso resa come qui pro quo. Più che uno scambio, appunto, un fraintendimento.
IL REGISTA FERRARIO CI SEGNALA LE PAROLE TRADOTTE CON VOCABOLI IN APPARENZA UGUALI: COME MANIFEST-MANIFESTO