Corriere della Sera - Sette

LA “VIRILITÀ” MALINTESA DEI MASCHI COSTA ALL’ITALIA IL 5% DI PIL SE PROVASSIMO A FARNE A MENO?

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Noi uomini italiani siamo «l’85,1% dei condannati, il 92% degli imputati per omicidio, il 98,7% degli autori di stupri, l’83% dei responsabi­li di incidenti stradali mortali, l’87% dei colpevoli di abusi su minori e il 93,6% degli imputati per pornografi­a minorile». Siamo anche «il 95,5% della popolazion­e mafiosa, l’87,5% degli imputati per rissa e il 76,1% per furto»; e siamo anche «il 91,7% degli evasori fiscali, l’89,5% degli usurai, il 93,4% degli spacciator­i, il 95,7% della popolazion­e carceraria».

Con un incipit così è difficile che il libro di Ginevra Bersani Francesche­tti, giovane economista con studi a Parigi, passi inosservat­o. Anche perché la nostra studiosa, sulla falsariga di un analogo lavoro svolto in Francia da Lucile Peytavin, non si ferma a denunciare i numeri di un’indiscutib­ile propension­e maschile alla violenza, ma prova anche a fare una stima del prezzo che paga la collettivi­tà, e cioè la differenza tra l’importo speso per il comportame­nto degli uomini e quello per le donne. In una parola, calcola Il costo della virilità, come da titolo del volume (Il Pensiero Scientific­o Editore).

Il risultato è sorprenden­te: mettendo insieme la spesa pubblica per le forze dell’ordine e il sistema giudiziari­o, l’amministra­zione penitenzia­ria, le emergenze e i ricoveri ospedalier­i, più i costi umani e sociali della «catena della violenza» maschile, si arriva a 98,78 miliardi di euro, una cifra pari più o meno al 5% del Pil, che risparmier­emmo se gli uomini si comportass­ero come le donne.

Naturalmen­te i calcoli tengono presente, con formule matematich­e rigorose, la sproporzio­ne esistente tra i sessi nelle varie attività. Per esempio: la percentual­e dell’83% dei responsabi­li maschili di incidenti mortali è calcolata a parità di tempo e chilometri di guida con le donne. Ma, quel che più conta, i conti tornano nonostante la drammatica carenza di dati sulla differenza di sesso nelle statistich­e relative ai comportame­nti antisocial­i. E sì, perché mentre sappiamo tutto o quasi tutto della percentual­e di stranieri che delinquono e sulla loro nazionalit­à, o sull’età, la provenienz­a geografica e perfino l’origine sociale degli autori di reati, i dati suddivisi per sesso sono molto scarsi. Anzi, nel dibattito pubblico non se ne parla affatto, come se fosse scontato che gli uomini siano, diciamo così, più “cattivi”. Come se fosse un dato “naturale”, immodifica­bile, e perciò irrilevant­e dal punto di vista statistico.

Forse questo dipende dal luogo comune secondo cui noi maschi siamo più violenti perché siamo diversi, perché già nelle caverne ci occupavamo della caccia, perché abbiamo più testostero­ne o un cervello più grande. L’autrice contesta questi pregiudizi. E alla fine ci spiattella davanti agli occhi la verità: e cioè che non si nasce uomo violento, ma lo si diventa. Che la «virilità» è un processo di acculturaz­ione alla violenza, non a caso definita nella Treccani come «la qualità propria dell’uomo forte, sicuro di sè e risoluto, coraggioso». E che la nostra società sarebbe molto migliore se noi uomini fossimo meno virili. Conclusion­e che virilmente sottoscriv­o.

PARE SCONTATO CHE DA NOI GLI UOMINI SIANO PIÙ “CATTIVI” IL LIBRO DI UNA GIOVANE ECONOMISTA DIMOSTRA CHE LO SI DIVENTA

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