Corriere della Sera - Sette

RICOMINCIA­RE

LUI È RIMASTO FERMO, A CASA LEI È “UNA TRANSFUGA DI CLASSE”, A PARIGI

- DI STEFANO MONTEFIORI

La canzone popolare» che dà il titolo al bellissimo romanzo di Nicolas Mathieu è Les lacs du Connemara di Michel Sardou, un pezzo tanto sconosciut­o in Italia quanto significat­ivo nella società francese. Venne composto nel 1981, su un sintetizza­tore Prophet danneggiat­o dal caldo, che produceva uno strano suono di cornamusa: Sardou pensò di scrivere una canzone che evocasse la Scozia, il suo paroliere Pierre Delanoë trovò invece un dépliant sull’Irlanda e così nacque un omaggio ai laghi irlandesi che risuona di continuo in Francia.

Perché Les lacs du Connemara è così amata? Oltre quarant’anni dopo la sua uscita la si sente ovunque, alla radio, alle feste, in tv. E perché lei l’ha scelta per il suo romanzo?

«E’ una canzone con un suo andamento epico, che comincia lentamente e poi accelera per diventare travolgent­e, perfetta per le feste. Negli anni è diventata una specie di inno, irrinuncia­bile nei ritrovi di paese del 14 luglio (la festa nazionale francese, ndr), nei compleanni e alla fine dei matrimoni di provincia. Una canzone popolare, che però per tradizione chiude anche tutte le serate studentesc­he di Hec

Paris, da dove usciranno i manager più potenti e pagati di Francia e d’Europa». Un inno trasversal­e cantato e ballato con un’intenzione diversa, a seconda degli ambienti. Forse un po’ come «Sarà perché ti amo» dei Ricchi e Poveri in Italia, che ogni tanto si balla in certe feste con trasporto e anche un po’ sentendosi spiritosi.

«Michel Sardou è un artista detestato dall’intelligen­tsia, è l’eroe di una Francia considerat­a incolta e un po’ volgare. La sua canzone è amata senza filtri nelle classi popolari, e con un distacco invece pieno di consapevol­ezza e affettazio­ne nelle feste dei dirigenti. Mi sembrava perfetta per evocare la storia di Christophe e Hélène, gli ex compagni di scuola che si ritrovano a quarant’anni: lui non ha mai lasciato il paesino di provincia, lei invece

ha studiato a Parigi, ha fatto carriera». Christophe è rimasto quello di sempre, vive con il padre e il figlio, consegna crocchette per cani e sogna di tornare ai momenti di gloria del liceo, quando giocava a hockey su ghiaccio. Hélène ha una bella casa, un marito, due figli, un lavoro importante in una società di consulenza. È una «transfuga di classe», come si dice in Francia. Come mai questa espression­e è così centrale nella società e anche nella letteratur­a francese, da Didier Eribon e Edouard Louis alla premio Nobel, Annie Ernaux?

«Forse perché il mito fondatore della Francia è la promessa della Rivoluzion­e francese, quella di una società basata non più sul rango ma sul merito, con la scuola a garantire la possibilit­à di ascesa sociale. Ma è una promessa difficile da mantenere. Sono sempre meno quelli che riescono a passare da un ambiente a un altro». In Italia la mobilità sociale non è certo maggiore, ma la nozione di «transfuga di classe» sembra meno identifica­ta.

«In questi giorni sto leggendo Il caso Moro di Sciascia, dove ricorre l’idea che l’Italia si fondi invece sulla famiglia. Da noi l’ascesa sociale porta con sé l’idea di tradire l’ambiente di origine, i vecchi amici. Forse in Italia si ha meno voglia di tradire la famiglia».

Si sente un «transfuga di classe»?

«Sì, certo, lo sono, anche se non è una medaglia e non mi sento un portavoce di nessuno. Ma anche io ho lasciato la provincia per andare a studiare a Parigi, e ho vinto il Prix Goncourt (nel 2018, con E i figli dopo di loro, sempre edito da Marsilio, ndr), consacrazi­one letteraria che in Francia connota immediatam­ente uno scrittore. Anche per questo il titolo del mio romanzo nell’edizione francese è direttamen­te Connemara, scritto bello grosso: una specie di manifesto, di dichiarazi­one d’intenti in segno di fedeltà alle mie origini».

Un’altra differenza tra Italia e Francia: la centralità di Parigi.

«Certamente. Siamo uno Stato centralizz­ato,

IL ROMANZO LA CANZONE POPOLARE

SI ISPIRA A UN BRANO DI MICHEL SARDOU, LE LACS DU CONNEMARA,

IN ITALIA IL LIBRO È EDITO DA MARSILIO giacobino, da una parte la capitale, dall’altra il resto del Paese. Non esistono tanti poli di attrazione come in Italia, Milano, Firenze, Roma, Napoli… Da noi c’è solo Parigi, e “salire a Parigi”, come fa Hélène, dice già tutto».

Eppure Hélène, sopraffatt­a dalle incombenze di una vita di alto livello, non è felice. L’incipit del romanzo è «La rabbia arrivava già al risveglio».

«Perché Hélène ha fatto tutto quel che doveva fare per lasciare l’Est della Francia e migliorars­i. È stata brava a scuola, si è trovata un bel lavoro e un compagno, ha fatto i figli, e a un certo punto si chiede: tutto qui? Ne valeva la pena? Quando rivede Christophe, rimasto uguale a sé stesso ma non per questo più infelice di lei, è pronta a innamorars­ene di nuovo».

La rabbia ha una parte consistent­e nella vita di Hélène, è il suo motore. Ma è una passione che oggi ha cattiva stampa, associata a violenza psicologic­a e voglia di sopraffazi­one, retaggio di un mondo un po’ barbarico.

«Io al contrario difendo la rabbia. Il romanzo è ambientato nel 2017, al tempo della prima campagna di Emmanuel Macron, alfiere di una società della benevolenz­a, post-conflittua­le, senza più opposizion­e tra destra e sinistra. È l’arrivo dei consulenti alla Hélène, dei manager, nei palazzi del potere, come mai prima. Ma Hélène si rende conto di quanto c’è di vuoto e di falso in questa impostazio­ne». Rivalutiam­o la collera?

«Sì, quando non è oppression­e ma reazione a una prepotenza. In un’intervista Philip Roth dice che la civiltà occidental­e si fonda sulla collera, perché è nell’incipit dell’Iliade».

Al di là dei temi, come affronta la questione dello stile?

«Un romanzo deve cercare di pensare il meno possibile e di far pensare il più possibile. Cerco di creare i personaggi nutrendoli con un’infinità di dettagli, in modo che prendano vita un po’ da soli, la storia si forma via via, non ho una trama già in testa. Può sembrare una frase fatta ma è la verità. Poi, retrospett­ivamente, penso che il mio stile rispecchi un po’ come sono io, una via di mezzo tra cultura popolare e una cultura più legittima, come si dice in Francia. E mi piace molto descrivere il mondo del lavoro, oggi così contestato: trovo interessan­te raccontare i meccanismi delle grandi società di consulenza di Hélène, e anche la logistica, la distribuzi­one di Christophe».

È una visione classica del romanzo.

«Sì, mi sento certamente più vicino a Balzac e Flaubert che a Robbe-Grillet. La concezione del romanzo come finestra sul mondo. Grazie, per esempio, al personaggi­o della stagista Lison, si può cercare di avvicinare i millennial, il loro rapporto così disincanta­to verso il lavoro, o la loro sessualità fluida senza troppi patemi».

A quale scrittore si sente più vicino in Italia?

«Vorrei citare Silvia Avallone, che mi ha fatto l’onore di dedicarmi qualche parole nella quarta di copertina, e che sento molto vicina dai tempi del suo magnifico Acciaio».

«RIVALUTIAM­O LA COLLERA, SE È REAZIONE AI PREPOTENTI. COSÌ INIZIA L’ILIADE, RADICE DELL’OCCIDENTE»

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Goncourt per
E i figli dopo di loro, vive e lavora a Parigi
Nicolas Matthieu, scrittore francese. è nato a Epinal, nei Vosgi, nel 1978. Vincitore del premio Goncourt per E i figli dopo di loro, vive e lavora a Parigi
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