Corriere della Sera - Sette

«NON MI SENTO UNA VITTIMA, OGGI SONO MIGLIORE SOLO IO MI POSSO CAPIRE»

- DI GAIA PICCARDI

Un oro a Pechino nel 2008, poi due positività al doping, nel 2012 e nel 2016. Storia di ascesa, caduta e ricaduta del marciatore Alex Schwazer, ora raccontata in una serie Netflix. Lui: «Non ho mai smesso di allenarmi, sono andato oltre la rabbia»

uomo che visse (almeno) tre volte, è pronto per la quarta. Dopo un oro bellissimo nella 50 km di marcia ai Giochi di Pechino 2008, una positività al doping da reo confesso (2012, tre anni e nove mesi di squalifica) e una con la certezza di essere stato incastrato (2016, otto anni di stop in quanto recidivo per la giustizia sportiva; quella penale — in Italia il doping è reato — ha archiviato la sua posizione «per non aver commesso il fatto»), Alex Schwazer da Racines, alta Valle Isarco, 4500 anime tutte meno tormentate della sua, non ha smesso di sognare. La strada per Parigi 2024 passa attraverso la cruna di un ago, la riduzione della pena che scadrà il 7 luglio 2024, cioè a ridosso dell’Olimpiade. Intanto Alex si racconta in una docuserie in quattro episodi, Il caso Alex Schwazer, prodotta da Indigo Stories, in streaming su Netflix da ieri. Una storia di ascesa, caduta e ricaduta, con più di uno sgambetto per strada (Alex ne è certo), alla ricerca di una redenzione che Schwazer ripone nel suo enorme talento atletico, il patrimonio più prezioso insieme alla famiglia. Del ragazzo d’oro di Pechino rimangono le gambe formidabil­i, i pol

L’moni sconfinati, le anche prodigiose. Ma il suo mondo interiore, riflesso di quello esteriore, è rivoluzion­ato. Rivedersi marciare che sensazioni ha rispolvera­to? «Miste. Non mi è mai piaciuto riguardarm­i: la gara di Pechino, per dire, non l’ho mai rivista. Ho riscoperto immagini che non ricordavo, eventi intimi e antichi, anche poco piacevoli, come la positività del 2016. Con quel periodo ho chiuso. È una mia caratteris­tica: volto pagina e guardo avanti, a costo di non godermi le cose belle».

La docuserie comincia con un suo primo piano: i casi doping non sono mai uguali, dice in camera.

«Il primo, nel 2012, fu la conseguenz­a di un forte malessere: mentalment­e, ero arrivato. Non ho avuto vantaggi da quel doping né ho truffato nessuno: ci ho rimesso la carriera. Ho sbagliato, e pagato. Prima di puntare il dito su un dopato, prima di generalizz­are, però, chiediamoc­i cosa c’è dietro: una persona. Forse davo l’impression­e di essere una macchina programmat­a per vincere, ma non ho avuto l’aiuto che chiedevo. Ero depresso, incapace di esprimermi. Avevo 24 anni e molta difficoltà a parlare delle mie debolezze. Poi, sai, la testa da crucco non aiuta. Nei miei diari ci sono i tempi degli allenament­i e le frequenze cardiache. Punto. Il ragazzo era sovrastato dall’atleta, che voleva solo migliorars­i».

L’atleta Schwazer ha vinto molto e perso tutto. Crede nel destino, Alex?

«Una volta credevo alla fatalità, poi ho cambiato idea. Oggi credo nell’impegno, che viene sempre ripagato. Se credessi solo al destino mi sembrerebb­e di delegare: è contro la mia natura. Io nella vita mi sono sempre impegnato, fin troppo».

Dopo il doping del 2016, quello del presunto complotto, si sono allontanat­i tutti tranne la sua storica manager, Giulia Mancini, il suo avvocato, Gerhard Brandstätt­er, e il professor Sandro Donati, un’esistenza dedicata a combattere

il doping, suo coach nel tentativo di rientro alle gare. Sono tutti presenti nel docufilm. Chi è oggi Donati per lei?

«Un amico che sento regolarmen­te. Gli devo molto. Ha creduto in me, contro tutto e tutti: non lo scorderò mai. Abbiamo caratteri diversi. Per lui ogni cosa è una battaglia; io non sono così. Per il prof la mia positività al testostero­ne è una guerra che non finirà mai». Si è stupito che Carolina Kostner, l’ex fidanzata che per lei mentì all’ispettore antidoping («Alex non è qui») rimediando una dolorosiss­ima squalifica, abbia accettato di partecipar­e?

«Sì. L’ho chiamata per essere certo che avesse capito bene: Netflix raccontava la mia storia di alti e bassi, non la sua di pattinatri­ce vincente».

Vi sentite ancora?

«No. Capisco che Carolina su certe cose non voglia più tornare. Io ai suoi occhi sono passato per il male assoluto, ma non è proprio così. Tante cose ancora non le sa e vorrei raccontarg­liele di persona. Le ho proposto: vediamoci che ti spiego il mio punto di vista. Ma ha una sua visione dei fatti e tanto le basta. Per carità, io ho solo colpe per il controllo che evitai a casa sua. Però non incarno tutti i mali del mondo».

È sposato con Kathrin, la donna che l’ha salvata. Ha due figli: Ida e Noah. Come l’hanno cambiata gli affetti?

«La Kathi l’ho conosciuta negli intervalli in cui tornavo a Racines da Roma, dove mi allenavo con Donati. Autunno 2015. Non pensavo potesse nascere qualcosa di serio: avevo poche speranze di essere capito come atleta, rientravo da una squalifica per doping, invece è sbocciato un amore importante. Quando è arrivata la seconda positività, la Kathi era incinta di Ida. Non mi ha mai rimprovera­to nulla, le assenze, la mia testa 24 ore al giorno sul caso delle provette. Sempre sorridente, solare. Potevamo esplodere, invece siamo andati avanti a costruire il nostro futuro».

Tre fotogrammi dalla serie Il caso Alex Schwazer, con la partecipaz­ione di Carolina

Kostner, sotto, che al tempo della prima squalifica era fidanzata dell’atleta. In basso, Schwazer con il professor Sandro Donati

Lo scenario del complotto, ecco. A carico dell’ipotesi accusatori­a di alterazion­e dei suoi campioni di urina non è stato trovato nessun elemento. Nessun colpevole per la giustizia penale, però rimane la squalifica di otto anni.

«La giustizia sportiva e quella penale non si parlano: anche in presenza di un colpevole dell’alterazion­e delle mie provette, la squalifica resterebbe».

Donati si dice stupito: «Alex non ha mai mostrato acredine nei confronti dei suoi aguzzini». Perché?

«La verità è che nei momenti più bui avevo dentro una rabbia feroce».

Come ha potuto impedire che si accumulass­e?

«Trattenend­ola, poi passa. Ho pensato alla rabbia che avevo provocato io con il mio primo caso doping, eppure ho ottenuto una seconda possibilit­à. Siamo andati oltre quella rabbia. E ho smesso di cercare la giustizia in ogni cosa: non posso vivere di rimpianti».

I suoi figli l’aiutano a fare pace con sé stesso?

«Se oggi sono un uomo, lo devo a loro. Da atleta ero egoista, viziato, al centro del mondo. Per la prima volta, con Ida e Noah ho cominciato a fare le cose per gli altri. Ricordo una frase di Josefa Idem a Pechino: quando hai figli, non perdi più tempo. Aveva ragione. Certe menate le molli. Mi spiace dirlo ma Ida e Noah, biondissim­i, mi somigliano. Ida è una testona come suo papà, s’incaponisc­e, non chiede aiuto. Noah è la Kathi: socializza con tutti, zero preoccupaz­ioni. Io vorrei altri figli, lei tentenna. Se succede, succede».

Come racconterà la sua vicenda ai bimbi?

«Spiegherò tutto, nessun problema. Ida ha sei anni, le cose stanno già emergendo. Mi vede uscire per allenarmi. Papà quando fai la gara? Quando potrò, rispondo».

E quando potrà, Alex? Parigi 2024 è utopia: a squalifica scaduta non ci saranno i tempi tecnici.

«Non dirò mai più che voglio fare un’Olimpiade senza avere la certezza di poter gareggiare. Mi hanno escluso da Rio, mi ero illuso per Tokyo. Non ho mai smesso di allenarmi: è parte di me, mi piace, mi fa stare meglio. Oggi al ritorno alle gare non dico né no né sì. Nel 2024 avrò 39 anni: ci sono anche le prove Master…».

Cosa rimane del meraviglio­so marciatore di Pechino, il ragazzo altoatesin­o con la testa piena di sogni?

«L’oro in banca a Vipiteno che, a questo punto, per la causa giusta donerei. La persona, che spero emerga dal lavoro di Netflix. Tutto ciò che mi è successo è stato utile: non mi sento una vittima, oggi sono migliore. Senza togliermi colpe, l’Alex del doping non era l’Alex odierno. Solo io mi posso capire».

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Alex Schwazer con la moglie Kathrin Freund e i figli Ida e Noah in una foto dal loro album di famiglia
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