Corriere della Sera - Sette

PRIAMO RIVELA AD ACHILLE LA FATICA DI VIVERE CHE LA SOLITUDINE NON CURA

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Cosa vede Achille durante l’inseguimen­to? Quando raggiunge il punto centrale, l’Iliade entra in una dimensione onirica. O meglio in un incubo. Achille era arrivato sulla piana di Troia per conquistar­e la gloria che dà l’immortalit­à. Perso Patroclo, si rende conto che ogni tentativo di opporsi alla morte da parte degli esseri umani è patetico. Cede allora al trionfo della morte, se ne fa servitore, diventa una specie di angelo sterminato­re, deciso a uccidere tutto e tutti. Se è morto Patroclo, tutti devono morire. Fino ad arrivare allo scontro decisivo. Finalmente Achille incrocia Ettore, colui che aveva ucciso Patroclo. Ettore tentenna; resiste ma subito la paura prende il sopravvent­o; scappa. Inizia un inseguimen­to che sembra non finire mai, come nei sogni, scrive Omero. Un dettaglio spiega tutto.

Patroclo aveva deciso di andare in battaglia per aiutare i Greci, dopo che Achille aveva litigato con Agamennone e si era ritirato nelle sue tende. Achille si era raccomanda­to con l’amico (la parola non basta a rendere l’intensità del loro rapporto: Patroclo è l’unica persona con cui Achille poteva uscire dalla sua solitudine); si era raccomanda­to che non si spingesse troppo oltre, che non si facesse prendere dalla foga durante la battaglia. Gli aveva dato la sua armatura perché incutesse terrore nei nemici. Dopo averlo ucciso Ettore si era preso questa armatura – quale migliore trofeo di questa armatura unica e meraviglio­sa? Quando Achille lo inseguirà, sarà proprio questa armatura a scintillar­e davanti ai suoi occhi. Achille, insomma, vede come un altro sé stesso: come in un incubo, Achille sta inseguendo sé stesso. Perché lo sa, o meglio lo sente dentro di sé, ed è un macigno. Il vero colpevole della morte dell’amato Patroclo non è Ettore. È lui stesso. Achille sta inseguendo sé stesso, uccide gli altri ma la guerra vera è quella che sta combattend­o con sé stesso. Achille è l’eroe del rimorso.

Per questo la sua ira non troverà pace neppure dopo aver ucciso Ettore – l’incubo continua con l’eroe che ogni giorno trascina il cadavere del nemico dietro a un carro (ma gli dèi ogni volta ne ricompongo­no le membra straziate). Achille si è perso in un labirinto fin troppo umano. Perché così funzionano la rabbia e il rimorso. Ed è solo in un sogno, un altro, che arriverà una soluzione. È il sogno che chiude l’Iliade, quando Priamo improvvisa­mente compare nella tenda di Achille – come è possibile che il re di Troia sia potuto entrare nell’accampamen­to dei nemici? Ma sarà proprio lui, il padre venuto a chiedere all’assassino il corpo del figlio ucciso, a insegnargl­i tutto: spiegandog­li che noi siamo fragili e in balia di un destino che non possiamo capire. Che si sbaglia e non c’è niente da fare – che l’unica cosa che si può fare è imparare a sopportare, provando a portare il peso insieme agli altri. Che non c’è errore più grande di questo chiudersi in sé stessi, facendosi avviluppar­e dalla solitudine che rende tutto cupo. È la lezione più difficile da imparare, ma anche la più importante. Achille invita Priamo a mangiare: e non c’è niente di più umano di questo spartire del cibo insieme.

UN INCUBO E UN SOGNO RACCOLGONO IL SENSO DELL’ILIADE NON C’È NIENTE DI PIÙ UMANO DEL CIBO SPARTITO NEL DOLORE

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greco cieco dell’VIII secolo a.C., originario della Ionia, ritenuto storicamen­te autore dell’Iliade e
dell’Odissea
Un busto di Omero, il cantore greco cieco dell’VIII secolo a.C., originario della Ionia, ritenuto storicamen­te autore dell’Iliade e dell’Odissea
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