Corriere della Sera - Sette

NO AL PURISMO DI STATO (NEPPURE ALLORA FUNZIONÒ) SÌ ALLO STUDIO DELL’ITALIANO

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IL PASSATO È PASSATO, ma – nonostante il purismo – si dice pure purè. Nei quindici elenchi pubblicati dal «Bollettino di informazio­ni della Reale Accademia d’Italia» tra il 1941 e il 1943 le parole straniere da estirpare erano soprattutt­o francesi, perché quella era all’epoca la lingua di moda. Alcune furono ritenute ormai insostitui­bili anche dalla «Commission­e per l’italianità della lingua»: come babà, bazar, cognac (oltre a qualcuna inglese: bar, film, tennis). Per altre ci si limitò a piccoli aggiustame­nti: alcole, brioscia, festivale. Ma per yoghourt – ad esempio – si finì con l’indicare latte bulgaro; per bijouterie non bigiotteri­a, ma conteria; per purée non purea, ma appunto passato. E comunque al bar si poteva ordinare una gineprella (invece del gin ) o un arlecchino (cocktail ) e al ristorante uno sfritto di cozze (sauté). Per i bambini c’era la tenerella (mou), per chi voleva ballare la sala di danze (dancing)ela volpina (fox trot).

Troppo facile scherzare oggi su queste proposte, che – nonostante le rigide leggi promulgate già dal 1923 e le gravi conseguenz­e previste per l’uso di denominazi­oni straniere nella comunicazi­one pubblica e commercial­e – non fecero alcuna presa. Spirito di patate, potrebbe commentare qualcuno. Ma credo sia utile riflettere sul fatto che il purismo di Stato non ha raggiunto nemmeno in un regime totalitari­o come quello fascista gli esiti che voleva ottenere. Riproporre oggi quel tipo di proibizion­ismo linguistic­o significa – come ha osservato Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca – rischiare solo effetti controprod­ucenti.

Politiche linguistic­he

Va ribadito, oltretutto, che le parole inglesi non sono certo la questione più urgente per quanto riguarda la lingua italiana. Basta pensare al fatto che almeno un terzo della nostra popolazion­e ha difficoltà a capire davvero cosa dice un articolo di giornale. Una difficoltà nella comprensio­ne e ancor più nella produzione di testi scritti che sembra aggravata negli ultimi anni dal dominio della microtestu­alità telematica di chat e social network. E poi c’è la questione dell’integrazio­ne linguistic­a di chi arriva in Italia da altri Paesi (ne parlava qualche tempo fa Gian Antonio Stella nel Corriere). E quella della promozione della lingua italiana nel mondo, che può ancora contare su uno straordina­rio prestigio culturale.

Tra le priorità, insomma, ci sono senz’altro quelle che Luca Serianni additava per l’italiano di domani alla fine del libro-intervista Il sentimento della lingua (2019). «Creare le condizioni per un suo rafforzame­nto. All’interno, puntando sulla scuola e badando a non far perdere alle nuove generazion­i il contatto con la grande cultura scritta, del passato (i classici letterari che è essenziale accostare a scuola) e del presente (saggistica nelle più varie ramificazi­oni); attivando o potenziand­o i corsi di lingua per i “nuovi italiani” (esemplare è quello che in proposito si fa in Germania, per esempio). All’estero, incrementa­ndo promozione e insegnamen­to dell’italiano nel mondo. Tutto questo non è solo un auspicio da anime belle; c’è dietro, insisto, un preciso risvolto economico e non volerlo cogliere rappresent­a una notevole responsabi­lità da parte della classe politica».

MULTARE LE PAROLE STRANIERE COME NEL VENTENNIO? PROMUOVIAM­O LA NOSTRA LINGUA A SCUOLA E NEL MONDO

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