«DONNE, CREDETEMI È ORA DI LASCIARE GLI SPECCHI E GUARDARSI ATTORNO»
L’attrice debutta da produttrice in una serie thriller, da oggi su Apple Tv+. «Non competo con Tom Cruise ma amo i ruoli d’azione, purché il personaggio sia anche ricco di emozioni interiori»
na donna d’azione, quasi come Tom Cruise. Jennifer Garner è celebre per non chiedere stunt e controfigure sul set, vuole correre e combattere lei stessa anche nelle scene più toste. Ma appena la paragoniamo all’attore delle missioni impossibili scoppia a ridere: «Non arrivo fino a quel punto, non si può competere con Tom!». Eppure guardandola è difficile credere che abbia 51 anni, con quel fisico sottile e scattante, mantenuto così anche dopo i tre figli: Violet, Seraphina e Samuel, di 17, 14 e 11 anni, avuti dall’ex marito Ben Affleck. Il suo patto col diavolo fa pensare a Daredevil, lo “sfida demoni” della Marvel (interpretato da Affleck) che il
Upersonaggio di Elektra (lei) stendeva roteando spade e lame, esattamente vent’anni fa. Conquistandolo così nel film e nella vita. Grazie alla gavetta teatrale e alla sua bellezza dolce, ha sempre avuto un ampio ventaglio di scelte cinematografiche, dai thriller ai film drammatici, alle commedie romantiche.
È diventata un volto televisivo con Alias, la serie tv di J. J. Abrams a base di spionaggio, suspence e fantascienza che le ha fatto vincere un Golden Globe nel 2002 e le ha fruttato altre quattro candidature nelle stagioni successive. Ha divertito il pubblico nel ruolo della tredicenne che si sveglia in un corpo da adulta in 30 anni in un secondo, nel 2004, che fu criticato su tutti i fronti ma lodato per la sua interpretazione. Ha suscitato commozione con il cult
indipendente Juno di Jason Reitman (2007) e con la dottoressa Saks di Dallas Buyers Club (2013). La separazione da Ben Affleck, nel 2015, l’ha catapultata sui tabloid ma Jennifer ha gestito il cambiamento con tale pacatezza e buon senso da trasformarsi in un modello per ogni coppia che aspiri a proteggere il benessere dei figli anziché usarli come ostaggio nel farsi la guerra.
Mentre il suo ex è tornato sui tabloid con l’altra Jennifer della sua vita, la Lopez, e nei cinema come regista e interprete di Air - La storia del grande salto, Garner sbarca sulla piattaforma Apple Tv+ con una nuova serie thriller di cui è anche produttrice esecutiva: L’ultima cosa che mi ha detto, in streaming da oggi, sembra avere tutte le qualità che più le stanno a cuore da attrice: azione e sentimenti. I sette episodi tratti dall’omonimo bestseller di Laura Dave seguono la vicenda di Hannah, da poco sposata a Owen (Nikolaj Coster-Waldau) che, dopo i problemi legal-finanziari della sua società, sparisce misteriosamente nel nulla lasciandola con la figlia adolescente di lui, che le tiene il muso da tempo. Le due iniziano a indagare insieme seguendo gli strani messaggi che l’uomo ha fatto trovare finché, nelle difficoltà, si ritrovano complici. «Non avevo mai trovato una combinazione così forte e ben riuscita di mistero e amore» sostiene l’attrice.
La definisce anche una «storia di maternità». Ci spiega meglio cosa intende?
«Sono stata totalmente conquistata dal libro di Laura Dave dal quale la serie è tratta. Si legge d’un
CHI È
TRE FIGLI Jennifer Garner, 51 anni, texana, è madre di tre figli avuti con il collega Ben Affleck: Violet (17 anni), Seraphina (14) e Samuel (11)
DUE MATRIMONI Garner si è sposata una prima volta nel 2000 con l’attore e regista Scott Foley (50 anni): nel 2004 il divorzio. L’anno dopo, il matrimonio con l’attore e regista Ben Affleck (50), finito nel 2018
IL GOLDEN GLOBE Un Golden Globe del 2002 come migliore attrice per la serie tv Atlas è il suo premio
più prestigioso fiato non solo per la tensione e i colpi di scena, ma perché le due protagoniste costruiscono una relazione simile a quella di madre e figlia pur non avendo alcun legame di sangue. Hannah è pronta ad andare in capo al mondo pur di proteggere Bailey, come le ha chiesto il marito. Accetta il fatto che la ragazzina la respinga, cercando pazientemente di fare breccia nell’incomunicabilità e conquistarne gradualmente la fiducia. Penso davvero che questa sia la cosa più bella da dire oggi sulla maternità, cioè che è basata sulla costruzione di un rapporto più che sulla parentela biologica».
Un messaggio per le famiglie allargate o arcobaleno, sempre più numerose?
«Vedo molte donne diventare ottime madri per i figli dei loro compagni e mariti, anche se non sono state loro a metterli al mondo. Credo che si possano rispecchiare in questo personaggio. E la stessa cosa si può dire delle nuove forme di paternità».
È stato strano, per lei che è madre, calarsi nel ruolo di una donna che aveva scelto di non esserlo ma accetta di crescere la figlia dell’uomo che ama?
«Sono ovviamente diversa da questo personaggio. Ho voluto fortemente i miei figli, come mia madre, eppure mi sono riconosciuta in Hannah e nella forza irrefrenabile del suo amore per Bailey, che le cresce dentro inaspettatamente e quasi con violenza. Condivido il suo desiderio di complicità, il bisogno di proteggere la ragazza. So bene quanto renda vulnerabili lasciarsi andare a un sentimento profondo,
anche a quello per i bambini. Sono le conseguenze dell’amore, che tu lo viva da genitore o da partner». È vero che ha letto il libro di Laura Dave a Seraphina, la sua figlia 14enne?
«Sì, ho l’abitudine di leggere libri a tutti e tre i miei figli, anche a Violet che ormai ha 17 anni. Cerco sempre testi speciali e L’ultima cosa che mi ha detto è così appassionante che Seraphina spostava sempre più avanti l’ora per andare a dormire, perché ogni capitolo ha un imprevisto finale che provoca una voglia compulsiva di andare avanti. Era sempre più difficile addormentarsi, e il mattino dopo ci ritrovavamo a parlarne insieme».
Tempo fa ha detto di aver istituito uno “yes day” annuale in cui i genitori dicono di sì ai ragazzi.
«Esatto, una giornata all’anno in cui li lascio sgarrare qualche regola: è salutare uscire ogni tanto dai soliti binari».
E se il giorno di libertà toccasse a lei, che cosa farebbe?
«Inizierei con un cappuccino e una fetta di torta nella mia pasticceria preferita, soprattutto se accompagnata dalle chiacchiere con le mie migliori amiche e da una passeggiata».
I protagonisti di L’ultima cosa che mi ha detto si chiedono l’un l’altra che cosa li definisca. Fuori dalla fiction, che cosa definisce lei, Jennifer?
«Direi l’amore per la comunità, nella vita insieme e nelle sue varie forme. La famiglia, i figli, gli amici, il vicinato. Anche quella del set è una community. Credo nel lavoro di squadra e nella società».
Da sinistra a destra, Jennifer Garner con Nikolaj CosterWaldau nella serie Apple Tv+ L’ultima cosa che mi ha detto; 30enne in Daredevil (2003) di Mark Steven Johnson, dove conobbe Ben Affleck; con Carl Lumbly nella serie tv Alias (20012006) che le valse un Golden Globe; protagonista del film 30 anni in un secondo (2004) di Gary Winick; con Jason Bateman e Elliot Page in Juno (2007) di Jason
Reitman È questo spirito che le ha permesso di tenere insieme la famiglia, continuando a vivere con il suo ex marito per ben tre anni dopo la separazione?
«Sì, certo. (Sorride laconica, a ricordarci che non ama le domande troppo personali; ndr).
Dopo la laurea in recitazione, al National Theatre Institute si accorgono del suo talento naturale per le scene di lotta. Quanto conta l’azione nella sua carriera e nella scelta delle storie?
«Non amo fare la stunt per il gusto di farlo. Mi piacciono le scene in cui la tensione arriva a un apice tale che non puoi far altro che correre. Per fuggire da qualcosa. Per iniziare a combattere. Perché stai rischiando la vita e non hai altra scelta che lottare: i momenti clou sono il mio divertimento di attrice. Se poi la storia è ricca di emozioni legate all’interiorità dei personaggi, tocco il cielo con un dito. Il top per me è quello che chiamo emotional action movie».
Non sente la fatica con il passare degli anni?
«Mi tengo allenata con varie attività, dalla cardiogym al sollevamento pesi. Mi basta avere sei settimane di preparazione e sono pronta, perfettamente a mio agio».
Sui social ripete alle donne di non stravolgersi il viso con i ritocchi.
«Vero, il mio consiglio è sempre lo stesso: guardatevi meno allo specchio e più intorno, per capire quello che il mondo offre di interessante. E dedicatevi ad altro».
omana Petri ha scritto un romanzo che fa volare. In Rubare la notte (Mondadori) ha seguito le acrobazie emotive di un uomo di cui sapevamo pochissimo, nonostante il suo piccolo principe abbia popolato il nostro immaginario. La poesia, il volo, le donne: chi era Antoine de SaintExupéry, detto Tonio? Voleva vivere a mille miglia da ogni luogo abitato, si sentiva a casa nel deserto, addomesticava camaleonti e gazzelle, soccorreva piloti precipitati. Amava sua madre più di ogni altra persona. E, poi, era molto di più. Eppure, c’è qualcosa di lui che ci sfugge sempre: un mistero che ci dà le vertigini, e che non riusciremo a dimenticare.
Antoine de Saint-Exupéry viveva da bambino in un castello e la madre lo chiamava Re Sole. Già da subito la sua vita sembra un romanzo, il tuo di romanzo però non è esattamente una biografia.
«Rubare la notte è un romanzo biografato. Anzi, per me è un romanzo tout court. Tutti i dialoghi di Tonio, tutte le lettere che scrive alla madre sono frutto della mia invenzione, così come i suoi pensieri. Ho letto delle biografie e ho riletto tutti i suoi libri in modo così ossessivo che sono
Rstata quella persona per tutta la scrittura del libro e faccio ancora fatica a staccarmene. Per me Saint-Exupéry, così come Jack London, di cui ho scritto nel Figlio del lupo, non erano solo due scrittori. Avevano alla base un nuovo concetto di coraggio».
Quando ricostruisci la filologia dei sentimenti, trovi la verità umana dei tuoi personaggi. Di quale verità è portatore Tonio?
«Intanto, di una nobiltà d’animo quasi sconcertante: era così devoto al suo lavoro di pilota, che era quella la sua forma di vero grande coraggio. Aveva volato fin da piccolo, ma lì aveva pensato che volare fosse semplicemente un ardimento. Quando è cresciuto, invece, ha pensato che volare significasse portare a termine un compito molto importante. Persino quello di con
dice la scrittrice, è un «romanzo biografato» in cui il padre del piccolo principe rivela l’ossessione per la scrittura, l’amore assoluto per la madre, le tendenze autodistruttive (fino al sospetto suicidio). «Era portatore di un nuovo concetto di coraggio»
segnare lettere: anche se un giorno gli dissero che erano fatture, lui rimase convinto che fossero lettere d’amore. Gli piaceva l’idea di far viaggiare i sentimenti».
Cosa succedeva quando volava?
«In Volo di notte, uno dei suoi più bei romanzi, parla di questo esperimento folle di viaggiare al buio rischiando la vita, buttandosi senza pensare in un nero di seppia, in un succo di neritudine dove non ci si rende più conto se il cielo è sopra o sotto. Però, nel momento in cui staccava l’ombra da terra, il suo corpo così ingombrante, faticoso, smetteva di essere un corpo e diventava un pezzo dell’aereo, si annullava. E lui lo accettava, gli piaceva». Quando Tonio pensa alla terra, l’unico vero riparo è la madre. È come se vivesse dentro la polarizzazione di due elementi naturali: l’aria e la terra, anzi la madre terra.
«L’unico momento in cui è felice è quando vola, quando rischia di non tornare. Tonio oltraggiava di continuo le sue paure. Ma quando tornava era già propenso alla partenza successiva. Quello dell’aviatore è stato, però, un mestiere che gli ha impedito di amare le persone come avrebbe voluto. E questo vale anche per la madre, che non vedeva mai. Ho allungato le lettere originali che lui le spediva, perché volevo che per lui fosse una lontana e amata psicoterapeuta a cui confessare tutto sé stesso. Le scrive infatti: “Voi siete il pozzo dell’anima mia”».
Loro due, dice la madre a Tonio, sono così meravigliosi perché non conoscono il concetto dell’esattezza.
«Erano entrambi due artisti, la madre una pittrice. Ma entrambi non avevano un rapporto ossessivo con il talento. Per loro la bellezza dell’essere al mondo stava nel non essere esatti. E nel godere della loro imperfezione».
Antoine de Saint-Exupéry nasce nel 1900, anche la data di nascita ha qualcosa di leggendario.
«L’elemento più leggendario della sua biografia è stata l’ossessione d’amore mangiata dal volo. Era capace di scrivere lettere d’amore di venticinque pagine, ma poi tornava dall’amata, si addormentava e ripartiva il giorno dopo. Quando scriveva era muto, non rivolgeva la parola a nessuno, poi faceva una festa con 50 persone, e infine se ne andava di nuovo».
Cos’è il volo? Prendere un aereo e puntare al cielo o molto più di questo?
«È sempre una sfida alla morte. Era un uomo autodistruttivo. Fece un incidente in Guatemala, ne riportò 132 fratture da cui impiegò moltissimo tempo per guarire. Era già uno scrittore di grandissima fama ancor prima del Piccolo principe, eppure quando guarì volle subito tornare in volo. Voleva solo stare seduto nel cielo». Anche scrivere è volare?
«Quando scriveva parlava di volo: ha fuso queste due materie».
E amare?
«Mi viene in mente una frase di Manganelli del libro Amore che dice molto di Tonio: “Amore, che io non sia mai dove sei tu, e tu non sia mai dove sono io”. L’amore era per lui una rincorsa costante, soprattutto per la moglie Consuelo con cui aveva un rapporto vertiginoso. La sua vera identità era quella della fuga». «Con la morte di un essere umano muore il mondo sconosciuto dei suoi pensieri… nessuno conosce i pensieri di un altro». Rubare la notte è anche un romanzo sulla solitudine.
«È soprattutto un romanzo sulla solitudine. Sono amico di tutti, ma per tutti sono un libro chiuso, gli ho fatto dire. Era giocoso, allegro, vorace: ma tutto in un suo mondo, concentrato in una fantasia che aveva preso il posto della sua realtà». Eppure, conosceva il senso dell’amicizia.
«Sì, molto. Per lui voler bene a qualcuno non voleva dire guardarlo in faccia, ma guardare nella stessa direzione».
Cosa ha voluto dire per Saint-Exupéry scrivere Il piccolo principe?
«Quel libro è stato un testamento. Ce l’aveva in mente da molti anni… Ha fagocitato la vita di Tonio e le sue altre opere. La morte del piccolo principe è un mistero, così come un mistero è stata la morte di Saint-Exupéry. È un libro criptato che contiene moltissimi significati, moltissime interpretazioni. E probabilmente contiene anche il mistero della morte del suo autore. Forse si è suicidato come il piccolo principe, che si fa mordere dal serpente. Di Tonio non è stato trovato nulla: l’aereo in mare e, poi, un braccialetto. Quello che gli aveva regalato la moglie Consuelo». Cosa vuol dire rubare la notte?
«In francese voler significa rubare, ma anche volare. Io credo che il buio faccia paura a tutti. Rubare la notte è una speranza devastante nel momento pauroso, nel buio: speranza di poter conficcare il muso dell’aereo nelle luci dell’alba». «L’essenziale è invisibile agli occhi».
«Nella carlinga e nella testa che gli si gonfiava nel casco, in tutta questa sua solitudine, Tonio ha trovato quello che ha cercato tutta la vita. Saint-Exupéry è stato un cercatore di dio, ma per lui dio era silenzio e assenza. Ed era qualcosa di intimamente legato alla scrittura. Per lui, un po’ come diceva anche Flannery O’Connor, lo scrittore è colui riesce a mostrare agli altri quello che gli altri non sono in grado di vedere».
«FECE UN INCIDENTE, RIPORTÒ 132 FRATTURE, EPPURE QUANDO GUARÌ VOLLE SUBITO TORNARE IN VOLO. DESIDERAVA STARE LÌ, SEDUTO IN CIELO»
nizialmente appassionata di disegno e fotografia, l’autrice friulana sceglie di dedicarsi alla scrittura in un momento di profonda rottura dell’equilibrio della sua vita, portando la creatività in ciò che faceva battere il suo cuore, in quello che la spronava a svegliarsi al mattino e ad essere felice. Su Rai1 è da poco andata in onda la fiction tratta dal suo primo romanzo Fiori sopra l’inferno interpretata da Elena Sofia Ricci.
È una bella consacrazione.
«Sì, è una gratificazione profonda. Significa che le tue idee e i tuoi personaggi hanno stimolato moti interiori in altre persone e vuole dire che hai colpito, che hai fatto bene quello che ti eri prefissata. Il romanzo non era ancora uscito nelle librerie, circolava solo in bozza e la produttrice di Publispei, Verdiana Bixio, l’ha letto e si è innamorata di Teresa. Lì è iniziata questa grande avventura».
Perché ci innamoriamo dei suoi personaggi?
«Posso ipotizzare che sia per lo stesso motivo per cui io li ho scelti e ho cercato di plasmarli, ovvero la verità delle loro esistenze che non sono patinate e non sono perfette. Teresa, ad esempio, la protagonista di Fiori sopra l’inferno, è la sintesi di tante donne che sono state importanti
Inella mia vita e questo suo essere una donna comune la rende straordinaria. Fino al momento dell’uscita del mio libro si era visto ancora poco affacciarsi questo tipo di donna: matura, ammaccata, che racconta della sua malattia, che porta al lettore un tipo di solitudine in parte subita e in parte voluta, frutto anche dei traumi provocati della violenza domestica che proprio lei ha vissuto».
Un personaggio che impone a sé stessa e agli altri di trovare l’integrazione delle proprie fragilità con la propria forza?
«Sì, io ho sempre avuto ben chiara l’esigenza di parlare di personaggi in evoluzione. Da lettrice non mi piacciono i personaggi sempre uguali a sé stessi: è vero che da un certo punto di vista sono rassicuranti perché sai che puoi sempre tornare da loro, ma allo stesso tempo non
Il suo romanzo, Fiori sopra l’inferno, è diventato una serie televisiva con protagonista Teresa Battaglia, commissaria di polizia che lotta contro l’Alzheimer, animata da «una speranza che fa rimboccare le maniche». Il suo dialogo con una filosofa e life coach
ti permettono di cambiare insieme a loro, di avere prospettive diverse e nuove, di trasformarti col cambiare delle circostanze». Nei suoi libri c’è una grande fiducia nella capacità che l’essere umano ha di affrontare sofferenze e cambiamenti.
«Sono una sognatrice ma ho anche un lato molto pratico e lucido. Pur vedendo la negatività che ci circonda, considero la speranza ancora come un bene assoluto che dobbiamo custodire. Amo tantissimo i giovani, amo l’infanzia, vedo in loro un seme che è pronto a sbocciare, non condivido le polemiche sui ragazzi di oggi. Dobbiamo piuttosto mettere in discussione cosa stiamo facendo noi adulti».
Teresa Battaglia non è una donna che si fa sconti e neanche Cate, il personaggio di Come vento cucito alla terra. La speranza va a braccetto con la responsabilità?
«Certamente. La loro non è la speranza che attende qualcosa che arriverà, che calerà dal cielo come la manna, ma è la speranza di chi si rimbocca le maniche, che sta nel gesto, nell’attività quotidiana. Una speranza concreta, che dobbiamo e possiamo coltivare sempre nella vita».
Nei suoi romanzi traspare la passione per la pittura e la fotografia. Ci si trova gettati dentro quei luoghi, all’interno di quei boschi che riesce a descrivere in modo così vivo da renderli visibili. Che rapporto ha con la natura?
«Sono nata e vivo ancora in un paese ai piedi di una montagna e all’inizio, da ragazzina, lo sentivo stretto. Ho imparato a rivalutare crescendo queste mie radici e lo sguardo di quando ero bambina, pieno di meraviglia che a un certo punto, diventando adulti, purtroppo si spegne, perché quando hai la bellezza sotto gli occhi diventa trasparente. È proprio la scarsità che determina il valore delle cose, spesso». Possiamo dire che conserva uno sguardo fanciullesco?
«Lo sguardo va educato. Quello del bambino è istintivo, vede tutta questa bellezza nel mondo e si meraviglia. Con la vita che facciamo noi, dobbiamo reimparare ad avere dei ritmi un po’ più lenti, a soffermarci sui particolari: le immagini sono fatte anche di sfumature, di odori, di suoni e provocano molte sensazioni. Devi prendere il tempo per farteli entrare dentro, altrimenti ti scivolano addosso».
La scrittura può essere anche un percorso spirituale?
«Per come la vivo io sì. Perché per me le parole sono alchimia, quindi ogni volta che mi approccio alla scrittura e alle parole io mi pongo l’obiettivo di creare un incantesimo. Compiere questo processo, quindi, significa aprirsi alle sensazioni, alle emozioni, alle riflessioni, fare silenzio attorno, reggere la solitudine, prendersi quel tempo che sembra non esserci mai. Quante volte le persone dicono: mi piacerebbe leggere, ma non ho tempo. Il tempo non lo troverai mai per spegnere la confusione del mondo se non lo cerchi, se non lo strappi veramente a tutto il resto e anche questo è un atto un po’ magico». Torno di nuovo a Come vento cucito alla terra perché forse lì più che mai è riuscita a tratteggiare figure di donne che riescono ad avere degli aspetti tanto femminili quanto maschili, se vogliamo dare delle etichette semplici, e viceversa riesce a tratteggiare immagini di uomini che fanno propri anche degli aspetti che di solito attribuiamo al femminile. Che donne e che uomini sono?
«Sono il frutto del ribaltamento di stereotipi che purtroppo invadono tanta narrazione. I miei personaggi non tolgono nulla né al maschile né al femminile ma arricchiscono entrambi. Ero ad una presentazione di Come vento cucito alla terra, tempo fa, e fra il pubblico qualcuno ha detto “si sente la presenza di un grande senso materno della cura”. Io ho risposto che, proprio in quel romanzo, si ricorda l’origine della parola padre, che deriva da pater, da pascere, nutrire, curare la prole. Quindi questa immagine della cura è già insita anche nella figura maschile. E credo debba essere narrata un po’ di più perché possa essere, per certi versi, riscoperta». Sempre in Come vento cucito alla terra scrive: «Una simile capacità di provare compassione non poteva che sgorgare dal dolore. Cate lo cercò nei suoi occhi così grandi da farla sembrare bambina, ma riuscì a scorgervi solo tenerezza. Forse si era sciolta la sofferenza ed era diventata cura da offrire al mondo». Ho trovato queste parole belle, perché il tema della compassione e della cura che nasce proprio dall’avere attraversato il dolore nei suoi libri ritorna continuamente.
«Teresa Battaglia è stata la prima dei miei personaggi a portare in scena questo dolore che si è trasformato in fuoco d’amore per gli altri, e ciò che lei ha appena letto riprende alcune parole di Alda Merini. In un’intervista la poetessa, che aveva sofferto tantissimo, disse: “Io non mi sono mai chiesta da dove arrivasse il dolore che mi ha colpito, l’ho accettato e dentro di me si è fatto fuoco, fuoco incandescente, un fuoco d’amore per gli altri”. Non accade spesso questo processo trasformativo, ma quando accade si compie un miracolo. La sofferenza ti può chiudere al mondo, al futuro, oppure ti aprire agli altri, con una sensibilità molto più profonda».
«QUANTE VOLTE MI SENTO DIRE: VORREI LEGGERE, SOLO CHE NON HO TEMPO. MA IL TEMPO NON LO TROVI MAI SE NON LO CERCHI»
iamo nell’atelier dello stilista Antonio Marras, a Milano, e in collegamento via zoom dalla Sardegna c’è Alessandro De Roma, di cui è uscito il nuovo romanzo Grande terra sommersa (Fandango): storia di Pietro, un giovane che, persa la madre, viene affidato alla nonna paterna che vive in un piccolo borgo sardo, San Leonardo di Siete Fuentes, dove scopre un mondo magico e pieno di misteri, come la famiglia dei suoi nuovi compagni di gioco, che guarda con invidia. Marras ha letto il romanzo e si è fatto a sua volte leggere dalla storia: «Ho pensato a mia madre, che mi ha insegnato una cura maniacale del dettaglio, mi chiamava “mai contento”. Lei non è morta come nel romanzo, in un incidente, lei si è spenta nel suo letto, lentamente, e io ho vissuto il cambio di ruolo: da assistito, perché è stata una mamma chioccia, ad assistente, perché lei non era più indipendente. Non ho paura della morte, ma non vorrei morire così».
Se l’autobiografia di chi legge filtra nel libro che sta leggendo, può succedere anche a chi lo scrive. «Per la figura di nonna Sircana sono ispirato a mia zia Annina» racconta De Roma «che è morta negli Anni 80 in un incidente stradale. Era
Sun’avventuriera, negli Anni 70 faceva dei viaggi da sola o con le sue amiche; oggi è una cosa ovvia, ma non lo era nella Sardegna dove sono cresciuto. Ha voluto visitare Paesi dall’altra parte della Cortina di ferro, era una che se c’erano i muratori al lavoro si metteva a lavorare con loro, diceva sempre quello che pensava, è diventata sindaca del suo piccolo paese. Mi ha insegnato che uno può superare i propri limiti e non deve aver paura del giudizio altrui. Io, con i romanzi, cerco di seguire le sue orme. Poi avevo altri due miti. Gramsci, che è cresciuto nel paese da cui vengo, Ghilarza, e Grazia Deledda, che era come mia zia all’ennesima potenza. Questi due mostri sacri hanno vissuto in tanti altri luoghi, sono usciti dal loro mondo. Se c’erano riusciti loro in un’epoca molto più dura della mia, dove era difficile solcare il Tirreno e
Lo stilista e lo scrittore, di cui è uscito parlano di quanto li accomuna e delle figure che li hanno ispirati. «Scrivere e cucire, parole e stracci, due modi per ridare vita alle cose, con niente»
seguire i sogni, io ero ridicolo con le mie paure e la mia ansia... Così ho studiato a Cagliari, ho vissuto in Inghilterra, Torino, Roma e Francia e viaggiato tanto, fino in Perù, Machu Picchu. Se me l’avessero detto da bambino, che avrei viaggiato tanto, non ci avrei creduto. Ora, dopo tutti questi viaggi, ho capito che voglio vivere in Sardegna. Mi sono reso conto di una cosa forse ovvia per molti ma non per me, forse perché non vivevo davanti al mare. La Sardegna è al centro del Mediterraneo. Da qui sono passati tutti e passeranno tutti».
La Sardegna natìa, per Marras, è stata un’isola al quadrato: «Alessandro è isolano e sardo, io» precisa Marras «nasco ad Alghero, isola nell’isola, si parla catalano, siamo discendenti di chi, come prostitute e delinquenti, doveva scegliere tra venire ucciso o finire ad Alghero... C’è un’urgenza naturale: nasci in un’isola, hai subito di fronte il mare. Esci dalla tua stanzetta, poi dalla casa e ti trovi subito questo liquido potente e spumeggiante; e sì, c’è Capo Caccia che ti protegge ma ti inquieta perché come la siepe per Leopardi vuoi sapere cosa c’è oltre. Così l’acqua profonda e pericolosa diventa il mezzo con cui ti sposti e diventi per forza un piccolo Ulisse. Io sono naturalmente attratto da ciò che è lontano da me e avrei voluto inventare il kimono, mi piace la sua essenzialità pura. Un rettandolo grande con due rettangolini alle maniche, agli antipodi dei costumi tipici sardi, che tra l’altro ad Alghero non abbiamo».
Oltre a Gramsci e Deledda, nel pantheon sardo lo scrittore e lo stilista inseriscono l’artista Maria Lai. De Roma l’ha incontrata nel 2007, prima della sua scomparsa (nel 2013): «Passammo solo un giorno, ma ricordo il sorriso accogliente e attento, trasmetteva la gioia di vivere nell’entusiasmo che dedicava agli altri. Bastava aver detto una parola che lei per qualche ragione trovava interessante e ti guardava negli occhi tirandoti fuori tutto il resto».
Per Marras fu un’epifania. «Io ho sempre disegnato, non volevo fare lo stilista, fu lei a spingermi. Ricordo la prima volta a casa sua, a Ulassai, dall’altra parte della
LA COPERTINA DI GRANDE TERRA SOMMERSA (FANDANGO). A SINISTRA, IN ALTO LO SCRITTORE ALESSANDRO DE ROMA, QUI ACCANTO LO STILISTA ANTONIO
MARRAS costa sarda, quello nel suo studio è stato il viaggio più lontano e fantastico che ho fatto. Quel luogo racchiudeva un mondo che avevo sempre immaginato, ma vederlo dal vivo, poterlo toccare era qualcosa di magico. Per me era il Paradiso... O il Machu Picchu, che prima Alessandro ha citato».
Marina Lai ha spesso intrecciato i propri fili con l’oggetto libro, quasi che la scrittura facesse rima con sutura, nel trionfo dell’arte come trama: «Credo che in questo io e Alessandro sia simili» continua Marras «cuciamo assieme, lui con le parole, io con i miei stracci, come Maria Lai insegna teniamo assieme le pagine della vita. Io ho il desiderio di scavare dentro, come quando cerchi un cuore, con le mani sporche nude laceri la pelle e cerchi
MARRAS: «LA POESIA MI HA AIUTATO A RESPIRARE» DE ROMA: «ZIA ANNINA, UN’AVVENTURIERA. NEI ROMANZI SEGUO LE SUE ORME»»
lo scrigno dei sentimenti. Riemergono memorie e spesso sono dolorose ferite che provo a cucire con punti di sutura, per riparare le fratture o, almeno, per tenerle assieme. Io cucio molto male, faccio un punto bizzarro, si chiama punto Rebibbia perché neanche i carcerati lo fanno così male».
E così, parlando di Grande terra sommersa di De Roma, oltre a fare i conti con il mito classico di Atlantide, mitologica città sommersa, ci si ritrova anche a parlare del Porto sepolto di Ungaretti, al cui nome Marras si illumina: «Mi ha sempre affascinato che lui abbia scritto quelle poesie su minuscoli pezzetti di carta, mentre era al fronte. La poesia da ragazzo mi ha salvato, ero dislessico anche se il disturbo non era stato diagnosticato; guardavo con invidia chi riusciva a leggere ad alta voce, quando il maestro mi costringeva a leggere vedevo le lettere muoversi e inventavo... La poesia mi ha salvato perché è scritta in mezzo alla pagina, con tanto bianco, spuma, mi ha dato un attimo di respiro; e così mi dava gioia imparare le poesie a memoria, ricordo ancora Rio Bo di Palazzeschi, fu la prima, ma quelle date per punizione erano per me una gioia».
C’è la poesia di parole mandate a memoria. E poi quella delle cose. Rotte, per Marras, abbandonate per De Roma, che racconta: «Questo romanzo e il mio precedente sono ambientati a San Leonardo di Siete Fuentes, c’era una specie di colonia, un hotel ormai chiuso. Lo spazio ora è invaso dalla natura, piante e alberi, ma io lo ricordo all’epoca della mia infanzia, il bancone del bar, il juke box, il campo da bocce... Scrivere per me è ridare vita a qualcosa, con niente».
A Marras piacciono gli oggetti rotti, segnati dal tempo. Cita una pallina che una volta suo figlio gli portò: «Aveva 7 anni, tornò dalla campagna con una pallina da tennis che era tagliata, anzi, squarciata e il tempo l’aveva annerita, consumata. Lui me l’ha portata dicendo che secondo lui era un’opera d’arte, e mi sarebbe piaciuta. E aveva ragione, mi piacciono le seconde vite degli oggetti».