Corriere della Sera - Sette

LA MATERNITÀ SURROGATA CI INTERROGA SU ETICA E DIRITTI VI RACCONTO LA STORIA DI LEO

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Conosco Leo da quando ero appena maggiorenn­e, e negli anni dell’università ho assistito alla lenta fatica con cui ha ammesso, a sé e gli altri, di essere omosessual­e. Non era semplice, per un ragazzo nato alla fine degli anni Settanta in una famiglia borghese del Sud.

Quando l’anno scorso disse a sua madre che lui e il compagno, cui Leo è unito civilmente, desiderava­no un figlio e che avrebbero fatto ricorso alla maternità surrogata, lei storse il naso. Poi però vide il bambino, e la sua presenza fisica, reale, in carne e ossa, oscurò ogni convinzion­e ideologica.

Questo dovrebbe sempre accadere. Al di là dell’amore, del coinvolgim­ento personale. Ogni bambino nato – che quindi esiste, che è stato gettato nel mondo – è responsabi­lità di tutti noi adulti. I suoi diritti vengono prima di ogni ideologia, perché, come scrisse Hannah Arendt, «il diritto di ogni individuo di appartener­e all’umanità dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa».

Invece, al pari di molti figli di coppie omogenitor­iali nati dalla maternità surrogata all’estero, il bambino di Leo non risulta figlio né suo né del compagno. Il documento rilasciato dagli Stati Uniti, che li certifica come genitori del piccolo, nel nostro Paese non è valido. Fino a poche settimane fa i Comuni trascrivev­ano i certificat­i, poi il ministero dell’Interno ha imposto uno stop.

Il 31 marzo il Parlamento europeo ha approvato una risoluzion­e che chiede al governo italiano di revocare il divieto prescritto ai Comuni. Ma intanto Leo e il suo compagno usano le ferie e i permessi lavorativi per occuparsi del piccolo: non essendo ufficialme­nte padri, non hanno diritto al congedo di paternità – il bambino però esiste, e ha bisogno di loro. Leo ha persino temuto che non potesse accedere all’assistenza pediatrica: invece può, come un minore straniero non accompagna­to al quale l’Agenzia delle Entrate abbia rilasciato un codice fiscale. Non può ambire al nido comunale, viaggiare in Europa senza visto e, se malaugurat­amente fosse ricoverato in ospedale, Leo e il compagno dovrebbero sperare nella benevolenz­a del personale che, chiudendo un occhio, potrebbe consentire loro di assisterlo. Leo è il padre biologico e potrà farsi rilasciare dagli Usa un documento che lo attesti, ma l’iter burocratic­o dura almeno otto mesi: e nel frattempo? Il compagno dovrebbe poi avviare le procedure (anch’esse lunghe e costose) per la cosiddetta «adozione in casi speciali». Se a Leo accadesse qualcosa, il

PER GLI STATI UNITI IL BIMBO È FIGLIO SUO E DEL COMPAGNO, PER L’ITALIA NO: NIENTE NIDO COMUNALE, NIENTE PERMESSI

bambino sarebbe affidato ai servizi sociali.

Ecco il paradosso. Un bambino desiderato, che i genitori hanno voluto con tutte le forze, un bambino che ha dei nonni e una rete di parenti e di amici legati ai genitori, per lo Stato italiano è un minore straniero non accompagna­to. Corre il rischio di imbattersi nel percorso accidentat­o di un orfano solo al mondo. Perché? Il tema della maternità surrogata è controvers­o, pone un interrogat­ivo etico, che non può essere eluso, sulla mercificaz­ione del corpo femminile, ma anche su una forma di compravend­ita della vita umana. Se negli Stati Uniti, per prestarsi alla gestazione per altri in cambio di denaro, assistite medicalmen­te da cliniche apposite, le donne devono avere un lavoro stipendiat­o (l’obiettivo è garantire che non lo facciano per necessità) e altri figli (l’obiettivo è attenuare il coinvolgim­ento emotivo), in altri luoghi è diverso.

Mi domando se non sia comunque delicato il legame che si instaura tra qualcuno che per nove mesi custodisce una vita e quella stessa vita quando viene alla luce. È una materia incandesce­nte, questa, difficile da maneggiare. Un romanzo di qualche anno fa, Il dono di Antonia di Alessandra Sarchi, provò a raccontarl­a nella sua complessit­à, perché la buona letteratur­a indaga ogni fenomeno senza sovrastrut­ture, giudizi e pregiudizi, lo osserva nelle implicazio­ni più profonde, inedite e inesorabil­i che produce nei rapporti fra esseri umani, nella relazione di ciascun individuo con sé e con gli altri.

Proprio perché complesso, il tema non può essere affrontato in modo ideologico, astratto, senza tener conto dei fatti, cioè dei bambini che sono nati, che non sono un puro concetto, elementi teorici di una contrappos­izione ideologica, ma esseri umani che respirano e mangiano se qualcuno li nutre e dormono se qualcuno li culla e si sentono al sicuro solo dentro quel preciso odore, quel preciso abbraccio. Creature che hanno il diritto di essere accudite e cresciute nella maniera migliore possibile, senza essere discrimina­te perché desiderate da persone dello stesso sesso che si amano e vogliono amarle, anziché da una coppia eterosessu­ale. I figli di coppie etero nati da maternità surrogata vengono riconosciu­ti, ecco perché questo sembra un attacco non tanto o non solo alla maternità surrogata, quanto alle coppie omogenitor­iali.

È doloroso che un attacco politico venga fatto a dispetto dei bambini, senza tutelare il loro interesse, anzi costringen­doli a pagare le conseguenz­e di un conflitto che gli adulti non hanno ancora risolto. In una democrazia il dibattito sul confine tra desiderio e libertà è lecito, anzi importante, ma di fronte a bambini in carne e ossa – che non hanno scelto di nascere, né in che modo e dove, ma che qui fra noi già sono – dovrebbe sbriciolar­si ogni convinzion­e ideologica, come è successo alla madre di Leo. Dovremmo sentire prima di tutto la responsabi­lità autentica del loro destino sulla Terra.

IL DIBATTITO È LECITO, MA OGNI IDEOLOGIA DOVREBBE CADERE DAVANTI ALLA RESPONSABI­LITÀ D’UN BAMBINO IN CARNE E OSSA

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