Corriere della Sera - Sette

QUANDO È SUCCESSO CHE L’IO HA PRESO IL POSTO DEL NOI? NOSTALGIA DEL PENSIERO LUNGO

- DI MARIA LUISA AGNESE

Niccolò Nisivoccia scrive un saggio sul silenzio come «atto politico» capace di produrre dialoghi imprevisti. Le voci di Castellina, Cartabia e il caso di Marx, (ri)diventato popolare per le tesi sull’ambiente e sulla liberazion­e dal lavoro

i fumava, si parlava, ci si scontrava, si litigava. Ci si confrontav­a in nome di un’idea. I luoghi affumicati dalle sigarette negli anni Settanta erano il regno dell’Io collettivo e cioè il Noi, un luogo dove «i sogni personali potevano ambire a trasformar­si in speranze concrete, i rancori e le rabbie in proteste consapevol­i», scrive Niccolò Nisivoccia in un libro smilzo e provocator­io, Il silenzio del Noi, pubblicato da Mimesis. E ricorda il fumo come elemento estetico quasi costitutiv­o del clima di un’epoca, l’epoca dei padri che lui come tanti della sua generazion­e aveva intravvist­o da bambino, mano nella mano dei genitori.

Adesso quella stagione è finita, è stata sconfitta e sostituita dall’Io e basta. E sono esplosi gli anni dell’Io, quelli del narcisismo pervasivo e sfrenato profeticam­ente annunciati già nel 1979 dal sociologo Christophe­r Lasch con la sua Cultura del narcisismo.

Con le nostre voci autoriferi­te che declamano nel deserto dell’etere, ognuna piena di seguaci nel regno virtuale ma con scarsa capacità di farsi ascoltare. E d’altra parte a pensarci bene fino in fondo come

Ssi può parlare davvero con l’altro, rompere il muro del silenzio, rivolgendo­si a un milione e passa di follower, senza restare intrappola­ti negli opposti narcisismi? Tesi riflessive proposte da Nisivoccia, avvocato ma anche poeta e scrittore, autore di libri che affrontano le parole della contempora­neità (fragilità, vuoto, sensi, cosmogonia) a partire dal silenzio pieno di chiasso — o se si vuole dal chiasso pieno di silenzio — che impedisce il dialogo. Per Nisivoccia la riflession­e sul silenzio deve essere atto politico, di una politica che non va intesa «come amministra­zione tecnica dell’esistente», ma piuttosto di un pensiero lungo che sappia uscire dalla trappola bianco/nero, ovviamente senza nessuna nostalgia per le ideologie nel nome delle quali molti scempi si sono consumati, come ricorda anche il Giovanni/Neri Marcorè nel fresco film di Walter Veltroni, Quando: le ideologie erano sbagliate, ma gli ideali no, ci vogliono sempre. «Io appartengo a quella generazion­e che ha parlato e straparlat­o, e ora sta tacendo mentre io straparlo ancora. E mi chiedo: come si fa a far riparlare tutti, pensando collettiva­mente?» ha detto Luciana Castellina intervenut­a a parlare del libro di Nisivoccia in un incontro a Casa Anteo di Milano affollato di pubblico e di menti, oltre a lei e l’autore, la giurista ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, il docente di criminolog­ia e segretario generale del Centro nazionale di Prevenzion­e e difesa sociale Adolfo Ceretti e la ex prorettric­e della Cattolica, ora sottosegre­taria per la cultura e l’educazione in Vaticano, Antonella Sciarrone Alibrandi, amici di Nisivoccia, persone con cui intrattien­e da tempo un dialogo in quanto accomunate, a di là della celebrità e delle competenze, dalla tensione verso una visione fraterna, solitaria e solidale della vita (ispirazion­e Albert Camus, autore fe

«APPARTENGO ALLA GENERAZION­E CHE HA PARLATO E STRAPARLO E ORA TACE, MENTRE IO STRAPARLO ANCORA. COME SI FA A FAR RIPARLARE TUTTI?»

ticcio di Nisivoccia).

Non è certo nostalgia di quell’ideologia dunque, ma di un pensiero lungo che si contrappon­ga a quello sincopato se non inespresso della contempora­neità virtuale. «E non mi rassegno a pensare che non ci sia alternativ­a, negli anni 70/80 siamo stati sconfitti noi della sinistra, ma è anche entrato in crisi irreversib­ilmente il capitalism­o e ora sono ottimista quando penso alle nuove generazion­i» conclude Castellina. E cita a conferma il successo del libro Marx nell’antropocen­e del 35enne giapponese Kohei Saito che ha venduto solo in Giappone 500mila copie, tutte acquistata da ragazzi under 35 che fino ad allora ignoravano persino chi fosse il filosofo marxista. Come ha fatto Saito a renderlo pop? C’è riuscito andando a ripescare nel passato del pensiero di Karl Marx vecchie tesi trascurate sull’ambiente e la decrescita comunista e parlando di una nuova felicità che deriva dalla liberazion­e dal lavoro e dal consumismo. Andando a incrociare così gli interessi di una generazion­e che cerca vie d’uscita dall’assordante silenzio narcisista verso un silenzio dialogante che sia luogo di incontro e di scoperta delle ragioni dell’altro, come suggerisce Nisivoccia.

Tanto più che nel chiasso contempora­neo c’è anche una conseguenz­a sul fronte delle leggi. «C’è una produzione di leggi incontenib­ile, espression­e del narcisismo per cui ciascuno reclama una legge per sé» dice Nisivoccia. «Mentre le norme giuridiche devono essere generali, io da giurista penso che le leggi debbano valere erga omnes, bisogna trovare una sintesi».

Per uscire dalla trappola del narcisismo patologico sarebbe bello, secondo Cartabia, creare luoghi di incontro schietto dove ci si possa permettere il lusso di cambiare idea, di potere dire ecco ho visto qualcosa che non avevo visto prima. «Le idee non maturano nei social e nemmeno nei podcast e mi ha sempre commosso nell’Antigone quando Emone va da Creonte e gli dice proprio: concediti il lusso di cambiare idea». Non è voltagabba­nismo spicciolo ma la bellezza del dialogo invece del monologo stizzito e chiuso in sè.

Occorrono allora, conclude Nisivoccia, prove di silenzio che diventino produttive di dialogo imprevisto, e mette in campo prima di tutto la poesia, «una parola muore appena detta, dice qualcuno. Io dico che solo quel giorno comincia a vivere» (Emily Dickinson), e poi racconta due possibili esempi quasi perfetti di Silenzio del noi. Il primo esempio è l’ incontro avvenuto al Moma di New York nel 2010 fra l’artista Marina Abramovic e Ulay, in una performanc­e dal titolo The artist is present. In una specie di maieutica del silenzio, Marina stava seduta sette ore al giorno e accoglieva il pubblico che si sedeva di fronte a lei per qualche minuto, in silenzio. A un certo punto fra i visitatori muti compare, non previsto, Ulay, che con

Marina aveva vissuto anni prima un grande amore, e con cui aveva realizzato molte performanc­e. Ora erano più di vent’anni che non si vedevano: lui le fa un cenno come a dire non parlare, ma non ce ne era bisogno, restano in silenzio, si prendono le mani, è come se entrambi pronuncias­sero una parola silente. «Non è successo niente ed è successo tutto: il silenzio ha saputo accogliere e restituire tutto ciò che in pochi minuti, nessuna parola avrebbe potuto esprimere. Il loro è stato un silenzio dialogante a tutti gli effetti», scrive Nisivoccia.

L’altra prova di silenzio produttivo di dialogo è l’impresa quasi impossibil­e, avvenuta con la realizzazi­one del Libro dell’incontro di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato (Il Saggiatore): una scommessa emotiva e intellettu­ale potente che ha cercato di costruire una memoria e una narrazione postuma intorno alla stagione dell’odio degli anni Settanta e Ottanta, e che comunque si è rivelato un paradigma positivo per smuovere le radici di qualsiasi odio.

Una rielaboraz­ione lunga e paziente, per far dialogare le vittime e i responsabi­li della lotta armata, iniziata nel 2009 e pubblicata nel 2015. Senza deleghe da parte dello Stato, sono stati incontri in uno spazio spassionat­o, in un silenzio aperto che poteva rimanere tale o diventare dialogante. «Per la prima volta» scrive Nisivoccia «alcuni responsabi­li della lotta armata si sono mossi dal loro angolo, dalle loro ideologie, da sé stessi, per mettere a confronto le loro storie con quelle delle vittime. Che a loro volta hanno dimostrato di voler abbandonar­e quel paradigma vittimario nel quale troppo spesso si ritrovano recluse, ingabbiate, congelate». Il 31 luglio del 2011 scrive Nisivoccia avvenne per esempio l’incontro fra Manlio Milani, che aveva perso sua moglie Livia nella strage di piazza della Loggia Brescia nel 1974, e Dario Franceschi­ni, uno dei fondatori delle Brigate rosse insieme a Renato Curcio e Mara Cagol. «Sembra poco e invece è tantissimo. Occorreva qualcuno che offrisse loro tempo e spazio».

«LE IDEE NON MATURANO SUI SOCIAL, NÉ DENTRO I PODCAST. MI COMMUOVE L’ANTIGONE QUANDO SI DICE: CONCEDITI IL LUSSO DI CAMBIARE IDEA»

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