DIECI ANNI DOPO ASSAD SUL TAPPETO ROSSO APRE LA PORTA ALL’IMPUNITÀ DEI TIRANNI?
Alla fine, Bashar Assad ha vinto la sua guerra? Mezzo milione di morti (finché sono stati contati, le Nazioni Unite hanno smesso anni fa) e 13 milioni di rifugiati dopo, il dittatore è di nuovo un leader da tappeto rosso? Come è avvenuto durante due visite di Stato, il 19 marzo ad Abu Dhabi e un mese prima in Oman? Come rivelano le linee più o meno segretamente riaperte tra le capitali? O dimostrano i rappresentanti siriani riammessi ai tavoli dell’Oms e dell’Interpol?
L’interrogativo non riguarda soltanto i 22 Paesi della Lega araba, tuttora (ma sempre più debolmente) divisi sull’opportunità di riaprire a Damasco le porte del prossimo vertice, quello di maggio in Arabia Saudita. Il ritorno in scena del presidente-dittatore, accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, mette in crisi l’intero sistema di diritti e sanzioni che l’Occidente ha costruito dalla Seconda guerra mondiale fino all’incriminazione di Vladimir Putin per la deportazione dei minorenni ucraini.
Dieci anni dopo una repressione che ha colpito ferocemente i civili e stravolto le città, la faccia sorridente di Bashar e quella di sua moglie Asma, tornata a mostrarsi al suo fianco dopo una lunga stagione all’ombra dei massacri, sfidano alla radice il sistema di valori e alleanze di cui l’Occidente si è sentito motore unico. Per una volta, dietro questo testacoda non ci sono interessi economici. La Siria è in ginocchio, dimezzata nella popolazione, stremata dai bombardamenti, da una crisi senza precedenti, infine dal terremoto. Per emiri e sceicchi la ricostruzione è un affare da poco. Mohammed bin Salman, reduce dall’intesa raggiunta via Pechino con l’Iran degli ayatollah, ha un altro obiettivo: vuole dimostrare ai “fratelli” del Medio Oriente (anche ai più cauti egiziani) il suo ruolo di broker diplomatico. E spingere così l’intera Lega in una posizione autonoma, dunque più forte e strategica, rispetto ai grandi blocchi che da mesi ormai sono in competizione tra loro. Da una parte l’America, l’Europa e gli interlocutori locali – pochi – ancora fedeli. Dall’altra una Cina più attiva e una Russia ormai vassalla, che hanno agganciato Teheran in una convergenza di interessi e autoritarismi. Gli esiti del riposizionamento sono difficili da tracciare a lungo termine. In un’analisi sugli scenari regionali, The Atlantic Council, think tank americano atlantista, ha rispolverato la figura del re del Belgio nel 1936: quando Leopoldo III pensò di dichiararsi neutrale, spaventato dalla brutalità della nuova Germania e dalla prudenza delle vecchie potenze europee.
In tutto questo, il 57enne Bashar Assad, stolidamente alla guida del Paese (con l’esclusione dell’area curda e del Nord ribelle intorno a Idlib), vede aprirsi un varco, forse inatteso ma decisamente propizio alla sua famiglia che dal 2013 si è conquistata un controllo pieno sull’economia nazionale – dall’edilizia alle banche, dalle telecomunicazioni a una rete di Ong che assorbe parte degli aiuti umanitari – fino ad agevolare il mercato di una droga anfetaminica (il Captagon) che porta verso Damasco incassi miliardari.
La sua riabilitazione diventa un indicatore di quanto, in un assetto multipolare, l’ordine americano sia stato eroso. Di quanto si sia rivelato un errore tragico, dai due mandati di Obama in poi, trascurare i conflitti mediorientali. Di quanto il modello delle democrazie debba ora concentrarsi e stare saldo, in Ucraina e non solo.
Quale attendibilità, quale principio di imputabilità – poter individuare colpe/responsabili anche tra le nebbie della guerra – rimane al “nostro” mondo se verrà sancito che leader tiranni possono abusare dei propri popoli e ritrovarsi legittimati, appena dieci anni dopo?
LA LEGA ARABA NON ESCLUDE LA RIABILITAZIONE, LE VECCHIE ALLEANZE SONO SCOSSE. NON RICORDIAMO PIÙ I MASSACRI