LE STORIE DI ANTONIA E BRUNO, VITE RECLUSE DI NON “NORMALI” RIFIUTATE DALLA “CIVILE” ITALIA
La fotografia di questa settimana è stata scattata a Napoli e mostra la targa della prima piazza dedicata a una vittima della reclusione manicomiale. Si chiamava Antonia Bernardini ed era internata nel manicomio giudiziario di Pozzuoli. Diede fuoco al materasso del letto di contenzione a cui era legata da 44 giorni. Morì per le ustioni.
Esistono storie che chi sa per quale motivo crediamo essere lontane da noi. Lontane fino a quando qualcuno che conosciamo ci racconta di vicende familiari in tutto simili a quel caso di cronaca rimasto sepolto per anni nella nostra memoria. Ci sono percorsi che potrebbero essere gestiti con umanità e, quando questo non accade, è inutile dare responsabilità ai soggetti coinvolti in prima persona: è come comunità, come società nel suo insieme che dovremmo interrogarci e pretendere che si agisca per il miglioramento, per la cura del singolo, per la presa in carico di chi non è autosufficiente, di chi non ce la fa da solo.
Più volte mi sono chiesto come sia possibile che si facciano barricate nel nostro Paese per sottrarre alla cella le detenute con figli al seguito. Si tratta di poche decine di persone, ma il dibattito finisce sempre per virare al becero e al disumano, tipo: «I buonisti vogliono le scippatrici rom fuori dal carcere». Ormai è un dato di fatto, la politica che fa comunicazione e la comunicazione che fa politica, fanno sempre finire ogni legittima richiesta in vacca. Divide et impera: è così che si amministra ed è così che si spacciano informazioni, alimentando timori, facendo crescere l’ansia, la paura, la diffidenza. E allora tutto ciò che vira dall’orrido percorso definito della “normalità” è da temere. E, se possibile, da isolare, richiudere, confinare. Sarebbe una conquista di civiltà se verso il carcere si avesse la stessa empatia e apertura che si ha verso le fiction sul carcere, ma questa è un’altra storia… forse. Ma no, non è un’altra storia, ci commuoviamo e ci sentiamo migliori di fronte alla finzione, ma solo perché la realtà e la verità dei fatti ci spaventano.
La fotografia di questa settimana è stata scattata a Napoli e mostra la targa della prima piazza dedicata a una vittima della reclusione manicomiale. Nel 2017 esce il libro Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio scritto da Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito (editore Sensibili alle foglie) e racconta quello che è accaduto ad Antonia Bernardini, vittima della reclusione manicomiale. Il 27 dicembre del 1974, Antonia Bernardini, internata nel manicomio giudiziario di Pozzuoli da oltre quattordici
VIVIAMO IN UN PAESE IN CUI TUTTO CIÒ CHE VIRA DALL’ORRIDO PERCORSO DELLA “NORMALITÀ” È DA TEMERE
mesi, dà fuoco al materasso del letto di contenzione al quale è legata da 44 giorni consecutivi. I soccorsi non giungono in tempo e Antonia viene trasferita nel reparto ustionati del Cardarelli di Napoli in gravissime condizioni. Morirà pochi giorni dopo per le ustioni, il 31 dicembre del 1974. La tragedia di Antonia sconvolse l’opinione pubblica e generò un importante confronto politico e mediatico sulla gestione dei manicomi giudiziari e civili. In seguito alla morte di Antonia, il manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli fu chiuso e questa fu una grande conquista di civiltà.
Oggi la piazza dedicata ad Antonia Bernardini si trova a Napoli, nel quartiere Avvocata, nello spazio antistante l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli. È uno spazio pieno di significato e varrebbe davvero la pena passarci e dedicare un pensiero a chi, virando dall’orrido percorso della “normalità”, riceve un trattamento inumano che talvolta porta alla morte.
La storia di Antonia mi ricorda una notizia ascoltata pochi giorni fa. Credo fosse sabato 15 aprile… mi ha colpito perché il fine settimana è sempre il momento di interruzione degli affanni, è come se cercassimo pace, riposo, serenità. Ascoltavo la rassegna stampa di Radio Radicale. Mi sembra che ai microfoni ci fosse Marco Taradash che raccontava una vicenda portata all’attenzione dei media da Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna. Bruno è un uomo di 50 anni affetto da picacismo, un disturbo che porta a ingerire qualunque cosa, commestibile e non. Bruno è da 24 anni internato nel centro Aias di Cortoghiana, una frazione di Carbonia, nel sud della Sardegna. Bruno ha, da 16 di quei 24 anni, le mani avvolte da bende e una maschera di ferro che non è un presidio medico ma gli viene messa perché non commetta atti di autolesionismo. Quello di Irene Testa è un appello: possibile che un essere umano debba vivere come Hannibal Lecter? Che una sola persona, che ha bisogno di cure costanti e attenzione continua non possa ricevere dal Paese in cui è nato e vive l’assistenza di cui ha bisogno? Che tutto debba essere lasciato alla cura della famiglia? Che Paese è quello che non riesce, da 16 anni, a farsi carico della vita di Bruno?
COME SI PUÒ LASCIARE PER 16 ANNI UNA PERSONA CON MANI BENDATE E UNA MASCHERA DI FERRO ALLA HANNIBAL LECTER?