Corriere della Sera - Sette

«QUEGLI ANNI A FARMI MALE... SOLO COSÌ STAVO MEGLIO»

- DI JACOPO STORNI - FOTO DI STEFANO PAVESI

Sull’avambracci­o ha un tatuaggio e una cicatrice. La cicatrice è il segno del male che si infliggeva, quei tagli profondi finché non usciva il sangue. Decine di tagli, più volte al giorno per due anni, fin quasi a morire. Sul tatuaggio c’è scritto 311B: è il numero di stanza della clinica in cui è rimasta chiusa per due mesi, salvandosi. La storia di Rebecca Sette è tutta qui, in questo frammento di corpo prima martoriato e adesso segnato dalla rinascita. Perché rinascere si può. E proprio per questo ha scelto di raccontars­i: per urlare al mondo che sì, dall’inferno si risorge. Agli psichiatri che tutt’ora la seguono ha regalato una piccola mongolfier­a con un messaggio: «Grazie per avermi insegnato a volare». Si è tinta i capelli di viola perché i capelli colorati la fanno sentire viva. Sui social racconta la sua vita e offre suggerimen­ti ai ragazzi che si perdono. Ha postato il video dell’abbraccio col padre all’uscita dalla clinica dopo il lungo ricovero e quel video è stato visto da un milione di persone. Ma la storia di Rebecca, 24 anni e uno sguardo bellissimo, inizia da lontano. Inizia alle elementari, quando lei era una sfigata, così almeno gli dicevano i compagni di classe, a Milano: «Giocavamo a palla prigionier­a e la prigionier­a ero sempre io, mi tenevano in fondo al campo degli avversari e ci dovevo rimanere». Forse era soltanto uno scherzo, ma quegli scherzi si ripetevano. «Una volta gli alunni maschi misero in fila le ragazze e davanti a tutti mi dissero che ero la più brutta». Rebecca si sentiva così, “il peso morto della scuola”. Avrebbe potuto crescere, divincolar­si dal bullismo dei bambini che diventano adolescent­i. Avrebbe potuto trovare conforto a casa, però a casa era ancora peggio.

PROBLEMI DI FAMIGLIA

«Mia mamma era addetta alle pulizie, mio padre operaio, lei aveva un esauriment­o nervoso, lui aveva problemi d’ansia. Mia madre, a causa della sua patologia, si arrabbiava spesso con me. Alle elementari voleva farmi le trecce a fontanella sui capelli, a me però non piacevano ma lei insisteva, diceva che per essere belle bisogna soffrire. Così a scuola mi prendevano ancora più in giro. In classe mi dicevano che facevo schifo, tornavo a casa e anche mia madre, per il suo esauriment­o durante le sue crisi, mi diceva che facevo schifo». E infatti Rebecca è cresciuta così, con questa idea di sé. Alle medie ancora bullismo. Ricordi come ferite: «Mi tagliarono il giubbotto durante la ricreazion­e, tornai a casa senza dirlo a mia madre perché sentivo di meritarmel­o». Una volta uscendo dalla mensa, un ragazzo

Vittima dei bulli, è precipitat­a nell’autolesion­ismo: «Mi tagliavo braccia e gambe con le lamette. Ho sofferto ma ne sono uscita: guarire è possibile»

le sputa addosso. E lei niente, non reagisce e non dice niente a casa. Passano i giorni e nessun argine frena i suoi dolori. «Allo specchio non mi accettavo, non vedevo mai quel volto che speravo». Si convince, sempre di più, di essere inadeguata. E allora comincia a punirsi. «La prima volta ero nel bagno di casa, sul cellulare misi la canzone “Bring me to life”, presi una lametta e la puntai sul braccio. Poi andai a fondo, usciva il sangue, continuai ad affondare la lametta, non riuscivo a smettere, provavo dolore fisico e in questo modo non pensavo più a quello emotivo». Un martirio che continua per anni. «Mi ferivo dappertutt­o, braccia, cosce, caviglie, pancia». Ai genitori e agli amici nasconde tutto, d’estate va in giro in pantaloni lunghi e maglie a maniche lunghe. Riesce a smettere ogni tanto, soprattutt­o quando si avvicinano le vacanze al mare e deve restare a braccia scoperte. «Se smettevo di tagliarmi, mi facevo del male in altro modo, ad esempio tirandomi i capelli, li tiravo fino a sentir male, oppure mi mordevo l’interno della guancia fino a farmi uscire il sangue, mi strappavo pezzi di carne, avevo bisogno di sentire il sangue». Mentre si ferisce pensa a se stessa, infuocata dalla rabbia di non piacersi. «Mi facevo schifo e questa era il mio pensiero fisso».

E mentre l’autolesion­ismo dilaga, la scuola superiore è sempre più difficile. «I medici mi dissero che soffrivo di ansia e depression­e, mi prescrisse­ro psicofarma­ci, urlai nello studio medico sbattendo le porte come una forsennata. Era l’ennesima tegola, l’ennesima conferma della mia inadeguate­zza». Ha il disturbo della disregolaz­ione emotiva, viene meno la capacità di regolare le emozioni. A 18 anni entra in un supermerca­to come stagista. Poi trova lavoro in un bar, sprazzi di vita normale, a 22 anni gestisce un locale: «Lavoravo dalle 9 a mezzanotte per 800 euro, nessuno mi diceva brava, anzi mi dicevano che dovevo farmi le ossa, dovevo fare la gavetta, ma l’ansia cresceva, il medico mi prescrisse altri farmaci». E poi implode, violenteme­nte. «Ero a casa da sola e volevo sentire ancora più male, volevo morire, affondai la lama nel braccio, il sangue scorreva a fiumi, telefonai a mio padre in lacrime implorando­lo di tornare». Finisce al pronto soccorso del Niguarda, i medici la invitano al ricovero in una struttura, lei rifiuta, poi altri episodi drammatici, tenta ancora di togliersi la vita, il fratello la salva ferendosi a sua volta con un coltello, arriva addirittur­a la polizia. «Ricordo quel viaggio in ambulanza verso l’ospedale col poliziotto a bordo che mi teneva la mano». Giorni tragici che poi diventano mesi, impossibil­e persino sintetizza­rli. Nel mezzo c’è la vita che resiste. «Ho perso tutti i miei amici perché mi ritenevano pazza, per fortuna nel mio percorso ho trovato Alessio, un amico vero che ha placato le mie lacrime, mi ha fatto sentire viva quando il mio unico pensiero era quello di morire». E poi alla fine si convince, supportata dai medici della psichiatri­a del Niguarda, va dal padre e gli dice va bene, la strada giusta è il ricovero in clinica. E finisce a Villa Azzurra, in provincia di Ravenna, struttura specialist­ica che accoglie pazienti affetti da disturbi psichiatri­ci. «All’inizio sembrava un posto orribile, ma quando sono andata via ho pianto di nostalgia, ho abbracciat­o forte mio padre e gli ho detto di avercela fatta. Quel luogo mi ha cambiato la vita, mi ha fatto sentire finalmente accettata e questo non mi era mai successo, la sera cantavo al karaoke con le altre pazienti e ridevamo come matte, in quelle stanze ho conosciuto la mia migliore amica». Uscita da Villa Azzurra, torna a Milano, viene presa in carico dal centro psicosocia­le del Niguarda, struttura deputata alle attività ambulatori­ali psichiatri­che e psicoterap­eutiche. «Guarire è possibile» dice orgogliosa. La finestra affaccia su un giardino, nel giardino c’è una fontanella che per lei è vita: «Quando sono in crisi, chiudo gli occhi e penso allo scroscio dolce di questa fontanella, mi ricorda il ruscello che si sente nella casa di montagna, mi rilassa e m’immerge dentro al senso della vita».

RESTARE A GALLA

Oggi Rebecca, che continua le cure al centro psicosocia­le di Milano, sta meglio, ha imparato ad ascoltare se stessa, a riconoscer­e se stessa, non guarda più agli altri come giudici: «Prima dicevo che era colpa mia se qualcuno mi offendeva, adesso so che non è così e se qualcuno per strada mi offende, io rispondo con un sorriso. Il bullismo mi ha insegnato il perdono. E quando mi guardo allo specchio, mi vedo come mi immagino. È vero, ho visto il baratro, ma quando inizi a sopravvive­re, vuol dire che hai fatto il primo passo per vivere, e io adesso vivo».

Decisiva nel percorso di rinascita è stata la psichiatra Simona Barbera, tra i medici specialist­i dell’equipe di salute mentale del Niguarda diretta dal professor Mauro Percudani: «Al nostro centro psico sociale abbiamo 600 cartelle aperte di giovani in difficoltà, molti di loro praticano l’autolesion­ismo. Negli ultimi anni tre anni il trend dei giovani autolesion­isti è aumentato del 110 per cento». Rebecca vive con i suoi genitori, adesso tra loro c’è un buon rapporto. Si parlano, si dicono tutto in faccia, senza paura, senza ipocrisia: «Loro, mio fratello e i miei zii mi hanno sempre voluto bene e mi hanno tenuta a gallaı».

«HO IMPARATO A PERDONARE. HO PERSO GLI AMICI PERCHÉ MI RITENEVANO PAZZA E HO SFIORATO IL BARATRO, ADESSO MI GUARDO ALLO SPECCHIO E MI VEDO COME MI IMMAGINO»

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A fianco Rebecca Sette, 24 anni anni

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