DIVO GIULIO O BELZEBÙ? POTERE E BATTUTE AFFILATE DI UN SETTE VOLTE PREMIER
«Il potere logora chi non ce l’ha»: Giulio Andreotti ha pronunciato la sua frase feticcio nel 1951 durante un dibattito parlamentare. Giovane apprendista politico l’aveva detta per difendere De Gasperi suo gran mentore, che qualche avversario voleva allontanare perché 80enne e ormai, appunto, logorato. Il copyright del concetto-guida sarebbe in verità di Talleyrand, altra mente fina del realismo politico, ma Andreotti l’ha fatto talmente suo nel corso del tempo che è diventato chiave interpretativa della sua lunga vicenda politica e umana. Fino a trasformarlo in Belzebù, genio del male, protagonista sospetto – diretto o indiretto – di tutte le vicende oscure della politica, da Gladio alle trattative con la mafia, al presunto bacio con Totò Riina. «A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto» diceva. Ma forse era soltanto un Machiavelli in sedicesimo che «perpetuava il male per garantire il bene» come Paolo Sorrentino fa dire al suo Andreotti/Servillo nel celebrato monologo de Il Divo, interpretazione onirica e urticante della vita del politico dc, liquidata come «mascalzonata» da un Andreotti per una volta colpito al cuore: evento insolito per lui, sempre sorvolante e misurato nelle polemiche.
In genere preferiva quella ironia romanamente affilata e sussurrata a labbra chiuse con frasi da florilegio, passate direttamente nella vulgata mediatica: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia», «A pensar male si fa peccato ma ci s’azzecca», «I panni sporchi si lavano in famiglia», «So di essere di media statura ma non vedo giganti intorno a me», «Non ho vizi minori» (per dire della sua avversione al fumo). Fino alla battuta con cui rese immortale un viaggio del nostro governo in Cina, nel 1986: lui, annegato nella folta delegazione italiana fra amici e collaboratori di Bettino, se ne venne fuori dall’aereo con quella battuta «Sono qui con Craxi e i suoi cari».
Un Machiavelli in salsa romana, perché, come ha detto lui stesso in una mitologica intervista-scontro con Oriana Fallaci del 1974, «Io sono romano e preferisco non drammatizzare oltre il necessario: esser romano aiuta molto a ridimensionare i problemi ed è un vero peccato che Roma non sia quasi mai riuscita ad essere governata da romani. Se pensa che prima di me non c’era mai stato un presidente del Consiglio, tutti nordisti o sudisti». Di sicuro dopo la prima volta ha pareggiato il conto, facendo il pieno con 7 presidenze del Consiglio e decine di volte da ministro in vari dicasteri. Ha fallito solo la presidenza della Repubblica, nel 1992, ma dal ’91 è stato senatore a vita. Uomo dei dossier, teorico della politica dei due forni sia interni che internazionali, collocato nella Nato ma con un occhio di riguardo alla politica araba: dualismo diplomatico giustificato con la posizione dell’Italia nel Mediterraneo.
Ha potuto contare su una famiglia riservatamente borghese, con i 4 figli affidati alla moglie Livia Danese, conosciuta un giorno al Cimitero romano del Verano e unita da patto amoroso e solidale tutta la vita. Le scriveva lettere tenerissime, Cara Liviuccia, ora pubblicate per Solferino con postuma devozione (è scomparso il 6 maggio 2013, lei nel 2015) dai figli Serena e Stefano.
«SONO QUI CON CRAXI E I SUOI CARI»: COSÌ RESE IMMORTALE LA FOLTA DELEGAZIONE IN CINA CON BETTINO. IL QUIRINALE UNICO RAMMARICO