«SE A NEW YORK NON HAI SUCCESSO, SEI SBAGLIATA TU I NAVIGLI INVECE MI HANNO ACCOLTA»
Milano che corre, cresce, attira. Inarrestabile. «Milano vicino all’Europa», cantava Lucio Dalla. Milano frenetica, ma generosa, col couer in man. Poi l’incantesimo sembra spezzarsi. La battuta d’arresto del Covid e una ripartenza diversa. Milano sempre più cara, inquinata, difficile, poco sicura. Gli affitti alle stelle e la competizione sfrenata. Milano non è più il sogno italiano? Il dibattito è aperto e più che mai acceso. Ma tra tanti che fuggono, o vorrebbero farlo, c’è ancora chi resta e la ama o la consiglia. Lorenza Gentile è una delle voci fuori dal coro contemporaneo. Scrittrice 35enne, è nata nel capoluogo lombardo, per poi trasferirsi a Firenze, tornarvi, fuggire a Londra e Parigi, e ritornarvi ancora.
Il suo ultimo romanzo Le cose che ci salvano,in uscita il 2 maggio per Feltrinelli, racconta la dimensione umana, e appunto salvifica, della città attraverso la storia di Gea, 27enne che trova rifugio, fisico e mentale, in un condominio sui Navigli e nell’amicizia con un gruppo di irresistibili anziani. Ci incontriamo durante la settimana del Design, uno dei momenti in cui la città scintilla, tra caos e installazioni. Lei, in controtendenza con lo zeitgeist, racconta una Milano accogliente, che addirittura può diventare rifugio. Come mai?
«Perché per me è stato davvero così. Sono nata a Milano, mi sono trasferita a Firenze con i miei genitori, sono tornata qui a 16 anni, in un’età complicatissima e, invece, la città mi ha aiutata. Ho studiato a Londra e poi ho avuto un’esperienza di lavoro a Parigi, nella celebre libreria Shakespeare and Company, che ho raccontato anche nel romanzo Le piccole libertà. Nel 2016 ho deciso di tornare a
Milano perché la dimensione delle metropoli internazionali mi aveva davvero provata. Nei luoghi in cui si pensa che tutto sia possibile forse niente è davvero possibile. Se non ce la fai, se non hai un successo incredibile a Londra, Parigi o New York, ti senti sbagliato tu. Sono tornata in questa città dovendomi ricostruire da zero, un po’ ammaccata, e mi sono sentita improvvisamente accolta dai Navigli, il primo quartiere in cui ho vissuto. Qui ho trovato l’amore — ho conosciuto mio marito in una libreria — e una dimensione umana, quasi di paese».
In effetti esiste ancora una realtà milanese come quella che lei racconta, però è assediata dalla gentrificazione e dall’omologazione.
«È come se la città fosse stretta tra due forze opposte. Da una parte quella stritolatrice degli affitti alti e della spersonalizzazione, che porta i locali storici a chiudere e i giovani a preferire altre mete, dall’altra quella autentica, una volontà fortissima di resistenza. Credo che, alla base della trasformazione, ci sia un desiderio, errato, di inseguire una sorta di perfezione».
Cioè?
«I social, che parlano soprattutto per immagini, ci hanno restituito una visione della città ultra patinata, irreale. Si è creato uno scarto tra aspirazione e realtà. Tra i locali, ormai, ce la fanno solo quelli “instagrammabili”, cioè quelli fotogenici. Magari non sono alla moda, ma hanno una loro autenticità che piace. Senza le piattaforme oggi, purtroppo, non si esiste. O meglio, non si resiste. Però distolgono dall’incontro, fanno credere che tutto sia a portata di mano, tolgono la voglia di esplorare i quartieri».
Quale potrebbe essere l’antidoto alla spersonalizzazione?
«Le persone. Basta vedere quello che è successo durante i lockdown, quando, in un battibaleno, i quartieri si sono organizzati e hanno dato vita a tante iniziative solidali. In quel momento Milano ha riscoperto una dimensione umana di cui avrebbe dovuto avere più cura anche a fine emergenza. Avremmo tutti bisogno, io per prima, di darci una scrollata in questo senso e interagire di più con il vicinato. Come dicevo godiamo di una dimensione di quartiere impensabile nelle grandi metropoli, dovremmo coltivarla. Bisognerebbe tornare a favorire l’incontro. Una volta era spontaneo: si andava al bar, in coda all’alimentari di riferimento si chiacchierava. Oggi si beve un caffè di corsa al bancone, quando va bene e si fa la spesa al supermercato o online, andrebbero create altre occasioni di aggregazione».
L’incontro intergenerazionale, al centro anche del suo
romanzo, potrebbe essere una delle soluzioni?
«Sì e mi sta molto a cuore. Nei miei libri c’è sempre una nonna che ha qualcosa da dire. Non voglio scadere nella romanticizzazione, ma penso che le generazioni più anziane abbiano ancora molto da dire e siano più contemporanee di quello che pensiamo».
In cosa?
«Sono davvero attenti all’ambiente e allo spreco. Comprano meno cose inutili, non amano buttare, piuttosto si inventano nuovi utilizzi per oggetti vecchi. È un grande atto creativo, fa bene a chi lo pratica, perché tiene la mente allenata, e alla società. Quello che non usiamo più può essere scambiato o regalato. Si attiva un circolo virtuoso. Gea, la protagonista di Le cose che salvano è promotrice di questa filosofia, è ciò che la rende diversa dai suoi 27 anni e anche poco milanese, nel senso più contemporaneo del termine».
Le somiglia?
«Un po’. Anche io ho la tendenza a isolarmi e a vivere in un mondo tutto mio. Come lei ho un amore viscerale per gli oggetti, devo averlo ereditato da mia nonna, che è stata una nota rigattiera. Non sono una accumulatarice seriale, ma non butto nemmeno a cuor leggero »
Qual è il suo oggetto feticcio?
«Un portaombrelli con delle mongolfiere. Lo aveva comprato il mio bisnonno e poi è stato tramandato di generazione in generazione. L’ho portato con me quando sono venuta a vivere a Milano da sola. È sbeccato, ma non lo cambierei con niente al mondo».
Cosa le ha dato Milano?
«Gli amici più cari, l’amore e una grande apertura mentale. Qui mi sono sempre sentita accolta, oltre gli stereotipi che la vogliono un po’ fredda e scostante. E poi tanti stimoli, c’è sempre qualcosa di interessante da fare: mostre, concerti, spettacoli teatrali».
Le ha tolto qualcosa?
«Direi di no, però certo ci sono tante cose che non amo e che cambierai. A cominciare dalla qualità dell’aria, ormai pessima e dall’inquinamento. Se imparassimo a muoverci più in bici o a piedi ci guadagneremmo anche noi perché avremmo la possibilità di guardarci attorno e, magari, scoprire qualcosa di nuovo della città».
La consiglierebbe a un giovane?
«Sì, con il monito di scegliere con attenzione il quartiere in cui vivere. Quello può fare la differenza. Poi suggerirei di non farsi distrarre dalle troppe sirene milanesi. La città è allettante e attraente sotto tanti punti di vista, ma c’è anche molto marketing. Un conto è la settimana del mobile, storica, un conto sono le decine di iniziative fini a sé stesse. L’ideale sarebbe riuscire a trovare il proprio paese, la propria isola felice nel mare della metropoli».