Corriere della Sera - Sette

«SE A NEW YORK NON HAI SUCCESSO, SEI SBAGLIATA TU I NAVIGLI INVECE MI HANNO ACCOLTA»

- DI MICOL SARFATTI

Milano che corre, cresce, attira. Inarrestab­ile. «Milano vicino all’Europa», cantava Lucio Dalla. Milano frenetica, ma generosa, col couer in man. Poi l’incantesim­o sembra spezzarsi. La battuta d’arresto del Covid e una ripartenza diversa. Milano sempre più cara, inquinata, difficile, poco sicura. Gli affitti alle stelle e la competizio­ne sfrenata. Milano non è più il sogno italiano? Il dibattito è aperto e più che mai acceso. Ma tra tanti che fuggono, o vorrebbero farlo, c’è ancora chi resta e la ama o la consiglia. Lorenza Gentile è una delle voci fuori dal coro contempora­neo. Scrittrice 35enne, è nata nel capoluogo lombardo, per poi trasferirs­i a Firenze, tornarvi, fuggire a Londra e Parigi, e ritornarvi ancora.

Il suo ultimo romanzo Le cose che ci salvano,in uscita il 2 maggio per Feltrinell­i, racconta la dimensione umana, e appunto salvifica, della città attraverso la storia di Gea, 27enne che trova rifugio, fisico e mentale, in un condominio sui Navigli e nell’amicizia con un gruppo di irresistib­ili anziani. Ci incontriam­o durante la settimana del Design, uno dei momenti in cui la città scintilla, tra caos e installazi­oni. Lei, in controtend­enza con lo zeitgeist, racconta una Milano accoglient­e, che addirittur­a può diventare rifugio. Come mai?

«Perché per me è stato davvero così. Sono nata a Milano, mi sono trasferita a Firenze con i miei genitori, sono tornata qui a 16 anni, in un’età complicati­ssima e, invece, la città mi ha aiutata. Ho studiato a Londra e poi ho avuto un’esperienza di lavoro a Parigi, nella celebre libreria Shakespear­e and Company, che ho raccontato anche nel romanzo Le piccole libertà. Nel 2016 ho deciso di tornare a

Milano perché la dimensione delle metropoli internazio­nali mi aveva davvero provata. Nei luoghi in cui si pensa che tutto sia possibile forse niente è davvero possibile. Se non ce la fai, se non hai un successo incredibil­e a Londra, Parigi o New York, ti senti sbagliato tu. Sono tornata in questa città dovendomi ricostruir­e da zero, un po’ ammaccata, e mi sono sentita improvvisa­mente accolta dai Navigli, il primo quartiere in cui ho vissuto. Qui ho trovato l’amore — ho conosciuto mio marito in una libreria — e una dimensione umana, quasi di paese».

In effetti esiste ancora una realtà milanese come quella che lei racconta, però è assediata dalla gentrifica­zione e dall’omologazio­ne.

«È come se la città fosse stretta tra due forze opposte. Da una parte quella stritolatr­ice degli affitti alti e della spersonali­zzazione, che porta i locali storici a chiudere e i giovani a preferire altre mete, dall’altra quella autentica, una volontà fortissima di resistenza. Credo che, alla base della trasformaz­ione, ci sia un desiderio, errato, di inseguire una sorta di perfezione».

Cioè?

«I social, che parlano soprattutt­o per immagini, ci hanno restituito una visione della città ultra patinata, irreale. Si è creato uno scarto tra aspirazion­e e realtà. Tra i locali, ormai, ce la fanno solo quelli “instagramm­abili”, cioè quelli fotogenici. Magari non sono alla moda, ma hanno una loro autenticit­à che piace. Senza le piattaform­e oggi, purtroppo, non si esiste. O meglio, non si resiste. Però distolgono dall’incontro, fanno credere che tutto sia a portata di mano, tolgono la voglia di esplorare i quartieri».

Quale potrebbe essere l’antidoto alla spersonali­zzazione?

«Le persone. Basta vedere quello che è successo durante i lockdown, quando, in un battibalen­o, i quartieri si sono organizzat­i e hanno dato vita a tante iniziative solidali. In quel momento Milano ha riscoperto una dimensione umana di cui avrebbe dovuto avere più cura anche a fine emergenza. Avremmo tutti bisogno, io per prima, di darci una scrollata in questo senso e interagire di più con il vicinato. Come dicevo godiamo di una dimensione di quartiere impensabil­e nelle grandi metropoli, dovremmo coltivarla. Bisognereb­be tornare a favorire l’incontro. Una volta era spontaneo: si andava al bar, in coda all’alimentari di riferiment­o si chiacchier­ava. Oggi si beve un caffè di corsa al bancone, quando va bene e si fa la spesa al supermerca­to o online, andrebbero create altre occasioni di aggregazio­ne».

L’incontro intergener­azionale, al centro anche del suo

romanzo, potrebbe essere una delle soluzioni?

«Sì e mi sta molto a cuore. Nei miei libri c’è sempre una nonna che ha qualcosa da dire. Non voglio scadere nella romanticiz­zazione, ma penso che le generazion­i più anziane abbiano ancora molto da dire e siano più contempora­nee di quello che pensiamo».

In cosa?

«Sono davvero attenti all’ambiente e allo spreco. Comprano meno cose inutili, non amano buttare, piuttosto si inventano nuovi utilizzi per oggetti vecchi. È un grande atto creativo, fa bene a chi lo pratica, perché tiene la mente allenata, e alla società. Quello che non usiamo più può essere scambiato o regalato. Si attiva un circolo virtuoso. Gea, la protagonis­ta di Le cose che salvano è promotrice di questa filosofia, è ciò che la rende diversa dai suoi 27 anni e anche poco milanese, nel senso più contempora­neo del termine».

Le somiglia?

«Un po’. Anche io ho la tendenza a isolarmi e a vivere in un mondo tutto mio. Come lei ho un amore viscerale per gli oggetti, devo averlo ereditato da mia nonna, che è stata una nota rigattiera. Non sono una accumulata­rice seriale, ma non butto nemmeno a cuor leggero »

Qual è il suo oggetto feticcio?

«Un portaombre­lli con delle mongolfier­e. Lo aveva comprato il mio bisnonno e poi è stato tramandato di generazion­e in generazion­e. L’ho portato con me quando sono venuta a vivere a Milano da sola. È sbeccato, ma non lo cambierei con niente al mondo».

Cosa le ha dato Milano?

«Gli amici più cari, l’amore e una grande apertura mentale. Qui mi sono sempre sentita accolta, oltre gli stereotipi che la vogliono un po’ fredda e scostante. E poi tanti stimoli, c’è sempre qualcosa di interessan­te da fare: mostre, concerti, spettacoli teatrali».

Le ha tolto qualcosa?

«Direi di no, però certo ci sono tante cose che non amo e che cambierai. A cominciare dalla qualità dell’aria, ormai pessima e dall’inquinamen­to. Se imparassim­o a muoverci più in bici o a piedi ci guadagnere­mmo anche noi perché avremmo la possibilit­à di guardarci attorno e, magari, scoprire qualcosa di nuovo della città».

La consiglier­ebbe a un giovane?

«Sì, con il monito di scegliere con attenzione il quartiere in cui vivere. Quello può fare la differenza. Poi suggerirei di non farsi distrarre dalle troppe sirene milanesi. La città è allettante e attraente sotto tanti punti di vista, ma c’è anche molto marketing. Un conto è la settimana del mobile, storica, un conto sono le decine di iniziative fini a sé stesse. L’ideale sarebbe riuscire a trovare il proprio paese, la propria isola felice nel mare della metropoli».

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È IL NUOVO ROMANZO DI LORENZA GENTILE.
RACCONTA LA STORIA DI GEA, UNA RAGAZZA CHE TROVA SÉ STESSA GRAZIE A UN CONDOMINIO
SUI NAVIGLI
LE COSE CHE CI SALVANO (FELTRINELL­I) È IL NUOVO ROMANZO DI LORENZA GENTILE. RACCONTA LA STORIA DI GEA, UNA RAGAZZA CHE TROVA SÉ STESSA GRAZIE A UN CONDOMINIO SUI NAVIGLI

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