Corriere della Sera - Sette

«MA QUESTA CITTÀ UNA VOLTA PROMETTEVA LAVORO, OGGI UNA (FINTA) FELICITÀ»

- DI LUCA MASTRANTON­IO

Fa effetto leggere i racconti La pelle di Milano (Mondadori) durante la settimana del Salone del mobile, la Design week dove, ogni anno, la città incarna il riflesso di sé che proietta tra selfie e vetrine. In questa settimana la città mostra i suoi desideri, ne crea di nuovi, vende i loro correlativ­i oggettivi, si apre come non mai: i cortili delle case patrizie sembrano accessibil­i a tutti, i negozi e i locali si riversano in strada con i loro dehors che attirano e mescolano milanesi, italiani, stranieri da tutto il mondo. Le vie della città sono come loft a cielo aperto, spazi di co-working in modalità aperitivo. La città sembra non voler avere segreti, vestita e spogliata ad arte, ha una pelle scintillan­te. Nell’antologia Mondadori c’è anche questa epidermide camaleonti­ca, ma la lente focale della scrittura si avvicina così tanto da mostrarne i pori, i punti neri, le rughe, i tagli che fanno accedere a una seconda pelle, più profonda. Una pelle albina, come quella delle creature che vivono di notte, come molti dei protagonis­ti di queste storie. Albina e fredda perché la vita, di notte ma pure di giorno, vissuto e pensato in previsione della serata, è immersa nei servizi (cibo a domicilio) e nelle esperienze (incontri occasional­i) e nei racconti (sui social) offerti dalle app del cellulare, la cui luce che retroillum­ina lo schermo non abbronza, né riscalda. Albina è questa pelle perché il sole non arriva sottoterra, dove ci si muove con la metropolit­ana, che non è un semplice mezzo di trasporto, ma la mappa mentale della città, e perché sottoterra ci si può vivere, come nel racconto Nuovo mercato immobiliar­e, dove il caro-casa spinge gli immobiliar­isti a trasformar­e garage ipogei in monolocali, perfetti per gli ipocondria­ci terrorizza­ti dal sole (a Milano!) che fa venire il cancro alla pelle. In Sistole una dipendente della Rinascente si trasforma, nel magazzino sottoterra vicino al Duomo, in un mostro che devasta tutto, fino ad una scena finale con la Madonnina in stile King Kong. Questo sottosuolo mescola

memoria e fantasia, sogni e mostri.

L’antologia è nata nel Laboratori­o Formentini per l’editoria, dove sono stati organizzat­i incontri con alcuni scrittori e dove è stato lanciato il concorso ScriviMi, cui hanno partecipat­o più di 300 under 35. Dai racconti, come scrivono nell’introduzio­ne Giacomo Papi e Alberto Rollo, emerge una sperimenta­zione linguistic­a che si accompagna alla sperimenta­zione esistenzia­le, con una insistenza sui nomi di vie, quartieri e fermate della metropolit­ana che pare una auto-ipnosi toponomast­ica per ancorare il testo alla realtà fisica, ma pure per rivendicar­e la propria posizione, esistenza, dando così le coordinate della lotta di classe che serpeggia, urbanistic­a e immobiliar­e, tra centro e periferia, proprietar­i e affittuari, e lavorativa, tra dominati e dominanti, garantiti e disperati; c’è, infine, la delusione per una felicità tanto irrinuncia­bile quanto impossibil­e da realizzare per tutti. Gioia è il nome di fermata della metro chiusa a molti.

«C’è un senso di solitudine molto forte» racconta Papi «contrastat­o con droghe, alcol, cibo e sesso. L’emozione prevalente non è gioiosa, è un sentimento di esclusione, di fallimento quasi, perché è una città che promette tantissimo e non può mantenere ciò che promette. Penso al racconto Il cimitero di Greco, un quartiere periferico, dove gli studenti che vengono da fuori Milano si trovano in una città diversa da quella che hanno visto raccontata sui social».

Le condizioni materiali di chi vive a Milano, in periferia, oggi sono migliori. Non ci sono più le “coree” degli Anni 50 o 60, come venivano chiamate le baraccopol­i che affollavan­o le periferie con gli immigrati, e ricordavan­o certi scenari suburbani da Corea, ma si è alzata troppo l’aspettativ­a su Milano: «La grande differenza è che nel Dopoguerra a Milano si arrivava per la promessa di un lavoro, mentre oggi a Milano si arriva perché promette la felicità, con i depliant umani rappresent­ati dagli influencer come i Ferragnez».

Milano con il suo vitalismo, per quanto disperato è più forte di tutto il resto, almeno, è diventata più europea, più americana. E dagli Stati Uniti ha preso anche la FOMO, la paura di (fear of) essere esclusi (missing out). «La paura di restare fuori» continua Papi «si fa frustrazio­ne, anche in chi magari un lavoro l’ha trovato, ma non gli basta per vivere come vorrebbe. Nel dopoguerra la solitudine o la rabbia spingeva un operaio verso Marx, oggi? Verso l’apericena, dove chi guadagna poco si sfonda di alcol e cibo».

Il cibo non è solo il grande racconto della Milano post-Expo, la ricchezza culinaria di una città multietnic­a, ma un effimero bene rifugio, un riempitivo nervoso: «Il racconto del cibo non è solo calato dall’alto, viene dal basso. Chi lavora tanto, guadagna poco e vive fuori, può concedersi come unico piacere l’apericena in centro, cioè bere e mangiare, magari male, in una zona fuori dalla sua portata, a un prezzo alto ma inferiore a quello del ristorante. La movida» conclude Papi «in questi racconti è indagata con profondità, come continente umano. Penso a Santissima, dove un ragazzo conosce Gilda, un travestito che se lo porta a casa, gli offre una lasagna e racconta della sua epoca d’oro a Parigi. Si conoscono di notte. A Milano, in questi racconti, la notte conta più del giorno».

L’antologia va oltre gli stereotipi degli ultimi anni, un po’ commedia un po’ noir, recuperand­o la lezione di Buzzati e Scerbanenc­o, lo sguardo di Visconti in Rocco e i suoi fratelli e il Giovanni Testori de La Gilda del Mac Mahon. Ecco, i nomi propri dei luoghi. C’è un’ossessione toponomast­ica, che Rollo spiega così: «Si tratta di un bisogno di aggrappars­i al nome dei luoghi, dei quartieri, delle fermate del metro. Sono racconti del sottosuolo, metropolit­ani, di una condizione ipogea testimonia­ta dall’insistenza dei nomi dei luoghi che sono fermate della metro: non c’è nessun luogo dove tutto è nominato come la metro, e di ogni luogo, quartiere, fermata, molti cercano di dare una definizion­e, come in Una storia vera, dove Assago, con il mercato, è un “cortocircu­ito” tra gli oggetti che vendono e le persone che vendono quegli oggetti. La mappa della metro è nella testa dei milanesi, e questa visione sinottica di tanti luoghi e tante possibiltà aumenta quello che Rollo chiama «scialo», il senso di «perdita di tempo, di occasioni mancate, di possibilit­à che si sprecano, una sensazione amplificat­a dal fatto che a Milano ti puoi spostare velocement­e».

Sulle aspettativ­e che Milano genera, Rollo ricorda un ragazzo del Laboratori­o Formentini che a un incontro detto: «Io sono arrivato qui, da fuori, per trovare un lavoro, per fare lo splendido, per scopare. Ecco, non ho avuto nessuna delle tre cose». Rollo: «Voler “fare lo splendido” vuol dire credere allo slogan che Milano è il posto dove bisogna assolutame­nte esserci, the place to be». Che posto è Milano? «Non la terra promessa» dice Rollo «ma un posto da corsa all’oro creata dalla comunicazi­one, che attira i giovani. Poi possono anche restare delusi, ma la comunicazi­one vende la loro presenza come la prova del valore di Milano. L’oro di Milano sono i giovani, la loro vitalità, che magari dentro produce disperazio­ne. Si vede nei racconti, che ci fanno accedere alla vita interiore di questi ragazzi. Milano, se crediamo al Salone del mobile, è la capitale mondiale degli interni, ma quelle case, con quegli interni costosi, sono luoghi a cui realmente in pochi possono accedere». (MONDADORI), CON I RACCONTI DI 15 AUTORI UNDER 35, VERRÀ PRESENTATA IL 3 MAGGIO A MILANO DA GIACOMO PAPI E ALBERTO ROLLO AL LABORATORI­O FORMENTINI PER L’EDITORIA (ORE 19)

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LA PELLE DI MILANO
L’ANTOLOGIA LA PELLE DI MILANO

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