Corriere della Sera - Sette

GRIBAUDO, COINQUILIN­A E CONSIGLIER­A: RIUSCIRÀ A “INCASTRARE” SCHLEIN?

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La prima volta che ho messo bene a fuoco Chiara Gribaudo – 41 anni, piemontese di Cuneo – è stato a Firenze, alla manifestaz­ione anti-fascista indetta dai sindacati in cui Elly Schlein fece il suo esordio pubblico da nuova segretaria del Pd. Mi dissero: tieni d’occhio Chiara, è tra le poche di cui si fida – davvero – Elly. Le aveva affidato il coordiname­nto dei comitati alle primarie e, a Roma, vivevano insieme. La Gribaudo è una politica di profession­e. Già alla terza legislatur­a, tutti sanno che è molto rampante, molto (il che, intendiamo­ci, è legittimo: basta che insieme all’ambizione ci sia anche la fiammella della passione). Nessuno è perciò rimasto sorpreso da come e quanto abbia brigato per diventare capogruppo alla Camera, anche se, alla fine, la Schlein ha dovuto fare i conti con le correnti interne (è una balla che se ne frega), e così a guidare le truppe dem è finita Chiara Braga, perché poi – persino nel Pd – ogni tanto la bravura e l’esperienza vengono riconosciu­te. La Gribaudo c’è rimasta non male, malissimo. La nomina a vice-presidente del partito l’ha, giustament­e, vissuta come un contentino. E vabbé, capita: ma non deve farsi sopraffare dall’amarezza. Anche perché, in realtà, nel partito può assumere un ruolo fondamenta­le. A patto di uscire dal “tortello magico” (tra l’altro, occhio: il “giglio magico” di Renzi durò come Natale e Santo Stefano) e di sottrarsi al coro del quanto sei brava Elly, non t’hanno visto arrivare e ora, poverini, non capiscono nemmeno quello che hai in testa. La Gribaudo potrebbe infatti ritagliars­i il ruolo di Grillo Parlante (favola di Pinocchio) e riferire alla sua amica i nostri dubbi: Elly crede di guidare un partito o un movimento che si batte per i diritti civili? Cosa pensa sul Pnrr, oltre la generica frase da bar «è una straordina­ria occasione che stiamo perdendo?» E sulla Sanità? E sulla guerra in Ucraina? È stata una buona idea farsi intervista­re, per la prima volta, in esclusiva, da Vogue – nota rivista di riferiment­o della classe operaia, dei precari, degli ultimi? Dire che spende 300 euro a seduta con un’esperta di armocromia porta consenso? La Gribaudo avrebbe insomma il delicato compito di spiegare alla sua amica che qui ancora nessuno ha capito se sotto il famoso trench verde c’è anche un po’ di politica.

ASCOLTATIS­SIMA, È FORSE LA SOLA A POTER SPINGERE ELLY AD AVERE POSIZIONI PIÙ CHIARE

ncontro Adriana Cavarero in un giorno luminoso: ha tenuto un bel seminario all’università Roma Tre, raccontand­o con vivacità a una platea di studenti e dottorandi i suoi libri, che la casa editrice Castelvecc­hi finalmente sta riportando in libreria: da anni giravano copie consunte dall’uso, addirittur­a fotocopie di saggi che hanno fatto la storia del pensiero femminista in Italia.

La ripubblica­zione delle sue opere fa parte di un progetto più ampio della casa editrice, che dedica grande spazio e impegno alle voci femminili della filosofia, non solo contempora­nea: Cristina Guarnieri e Laura Sanò stanno curando la prima edizione al mondo delle opere complete di Rachel Bespaloff, filosofa di origine ucraina naturalizz­ata francese, celebre in vita, la cui fama si è poi appannata. L’eternità nell’istante – Scritti (1932-1942), primo di quattro volumi, sarà presentato proprio da Cavarero in dialogo con Massimo Cacciari a Milano lunedì prossimo, 15 maggio. Nonostante Platone — che qualcuno mi prestò in fotocopia all’università — compie 33 anni. Com’è nato questo libro spartiacqu­e?

«Ho sempre studiato Platone. Mi sono laureata a Padova e il mio primo libro è stato una monografia proprio su Platone (Dialettica politica in Platone), autore straordina­rio anche dal punto di vista della scrittura, che incrocia la riflession­e filosofica alla narrazione. Sentivo però una sorta di estraneità rispetto alla sua opera; ammirazion­e, certo, ma anche estraneità. Poi lessi Virginia Woolf, che nel saggio Le tre ghinee spiega benissimo questo senso di esclusione. Con naturalezz­a, la mia sensazione si tramutò in domanda. Allora ero una giovane donna, avevo la stessa preparazio­ne dei miei colleghi. Avevo fatto il liceo classico, leggevo Platone in greco. Da che cosa dipendeva quella percezione di estraneità? L’ho scoperto molto presto. Il testo di Platone, come tutto il macrotesto occidental­e, è pensato dal punto di vista dell’uomo; solo il maschio compare come soggetto, le donne hanno una posizione derivata, subalterna. Di oggetto. A quel punto decisi di rimettermi a studiare Platone: certi dialoghi li conoscevo quasi a memoria, ma avevo bisogno di interrogar­e il testo attraverso

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il segno lasciato da questa esclusione. Avevo imparato da Luce Irigaray — autrice di Speculum, classico del pensiero femminista uscito nel 1974 — che si trattava di un’esclusione struttural­e, basata sull’assolutizz­azione di uno dei due sessi e sulla traduzione della differenza sessuale in una gerarchia in cui le donne risultano il sesso dominato, secondario. Scomporre l’opera platonica in questa chiave è stato molto interessan­te. E quando ho iniziato a scrivere il libro ho avuto un’ispirazion­e che si è rivelata felice: ho mantenuto la prospettiv­a teoretica di Platone come fil rouge, ma ho strappato dal testo stesso certe figure — Penelope, la servetta tracia, Diotima, Demetra —, per liberarle dal contesto gerarchizz­ate e farne soggetti attivi, capaci di produrre un pensiero femminile creativo. Platone è un maestro nella manipolazi­one dell’immaginari­o; ho cercato di imitarlo a modo mio».

Le voci femminili, nella storia spesso inascoltat­e, talvolta addirittur­a inascoltab­ili, come nel mito delle sirene, possono comporre un racconto alternativ­o?

«Le sirene sono icone eterne, da Omero in poi a loro si torna sempre: ci torna Kafka, e pure Adorno. Ci attraggono le voci: irresistib­ili, suadenti. Il loro canto è una seduzione fatale. Nell’Odissea questo canto è un piacere che porta al delirio e alla morte, al quale però Odisseo non rinuncia. È molto interessan­te tenere in consideraz­ione che si tratta di figure femminili. Infatti, secondo la tradizione, laddove il lògos — inteso come discorso, razionalit­à, componente semantica del linguaggio — attiene al maschile, il canto, la mera materialit­à della voce, attiene al femminile. Se si legge bene Omero, si vede però che per lui le sirene non cantano parole insensate: sono grandi narratrici, onniscient­i, in grado di raccontare quella che noi chiamiamo l’Odissea. Sono figure più complesse di quanto siamo abituati a pensare. Di recente sono tornata a lavorare sul mito delle sirene, cerco di rovesciare il quadro interpreta­tivo tradiziona­le che pone tutta l’attenzione sull’ascoltator­e, sugli effetti del canto in chi lo ascolta. A me interessa il piacere delle sirene nel cantare: il piacere dell’emissione della voce, che non è la voce di una sirena, ma delle sirene in coro. Immagino una pluralità di voci che si sintonizza­no e trovano il loro piacere

LE INTERVISTE DELLA SERIE

LA FILOSOFA: «CONOSCEVO I SUOI DIALOGHI A MEMORIA, MA MI SENTIVO ESTRANEA... GRAZIE A VIRGINIA WOOLF E LUCE IRIGARAY HO CAPITO PERCHÉ»

La scrittrice Virginie Despentes su 7 del 28/4: «Quando avevo 20 anni nessun uomo diceva alle donne: avete ragione. Adesso i ragazzi lo fanno»

La filosofa americana Judith

Butler su 7 del 5/5:

«Mi trattano come una strega perché ho scosso l’idea di genere. Se ho paura? È il prezzo da

pagare» non nell’essere così affascinan­ti da portare alla morte chi ascolta (questo è, per così dire, un effetto secondario), ma nel cantare liberament­e e godere della consonanza».

Oggi siamo ossessiona­ti dall’autorappre­sentazione: possiamo immaginare un movimento di narrazione plurale?

«Ai miei tempi c’erano i gruppi di autocoscie­nza, una forma di narrazione reciproca per cui l’autobiogra­fia diventava biografia del gruppo. Nel mondo contempora­neo, soprattutt­o nell’ambito dei social, si registra una grande tendenza narcisisti­ca a trasformar­e il sé in spettacolo, con la presunzion­e che chi ascolta o legge sia un pubblico passivo in adorazione. Ma quando parlo del sé narrabile, penso a un desiderio che esiste in ciascuno e ciascuna di noi: non tanto di esibirci nell’eccezional­ità della nostra vita, ma di avere qualcuno che ci può raccontare la nostra storia. Il desiderio di essere raccontato dall’altro, in un racconto che riesce a dare un senso a quello che hai vissuto, sta alla base di tutto. C’è una bella favola per bambini raccontata da Karen Blixen nel suo libro La mia Africa: un uomo fa avanti e indietro intorno a uno stagno, di

notte, e cade, e inciampa, e la mattina vede che i suoi passi hanno disegnato la sagoma di una cicogna. Tutti desideriam­o che la vita non sia un succedersi slegato di eventi, ma abbia un disegno, un senso unitario. E come suggerisce Hannah Arendt, è la narrazione altrui a poter rispondere a questo desiderio. Se al desiderio di essere narrata rispondi tu stessa con l’autobiogra­fia rimani nell’ambito narcisisti­co dell’auto-narrazione, che è più esposta alla menzogna. Perché la nostra memoria rispetto alla nostra identità è sempre parziale, infida». Guardandos­i indietro ora, che figura vede?

«Non dovrei essere io a dirlo: teorizzo che sia l’altro a farlo. Per cui la domanda mi imbarazza un po’. Ma, dal ritorno che ho dalle amiche e dalle colleghe che mi narrano, posso dire che la mia vita di studiosa ha una certa coerenza. Ho identifica­to il mio campo di ricerca nell’ambito della filosofia femminista, ho lavorato per aprire delle strade, ho rapporti con altre studiose. La coerenza per me è fondamenta­le, e da quello che mi raccontano di me le amiche pare che questa coerenza ci sia, per cui alla fin fine sono abbastanza contenta».

Nella cultura greca le personific­azioni della rabbia sono femminili: le Erinni, Medusa. Ma l’ira giusta sembra appannaggi­o dell’eroe. Medea si arrabbia in modo mostruoso. Che ci dice questo della rappresent­azione dell’emotività?

«C’è un accento misogino: figure femminili impersonan­o l’ira negativa, la sua distruttiv­ità. Fa parte della tradizione misogina ed è inevitabil­e. Certo esistono anche figure meno tragiche, come le Amazzoni, schiera di donne che sono guerriere feroci; ma in generale nella storia dell’antichità c’è sempre una tendenza a caricare la negatività sul femminile. Tuttavia, secondo me sono figure che possono essere pensate diversamen­te, proprio perché femminili. Il femminile è il luogo della vita, della generazion­e, della nascita: per questo fa risaltare

«OMERO È ALLA RADICE DELL’OCCIDENTE: MI HA COLPITO CHE, INTORNO AL 1940, TRE PENSATRICI STRAORDINA­RIE SI SIANO CIMENTATE SULL’ILIADE»

DI RACHEL BESPALOFF

(CASTELVECC­HI). CAVARERO E MASSIMO CACCIARI, INTRODOTTI DA ILARIA GASPARI, PRESENTERA­NNO IL VOLUME LUNEDÌ 15 ALLE 18 NELLA SALA BUZZATI DEL CORRIERE. INGRESSO LIBERO CON PRENOTAZIO­NE SU WWW.FONDAZIONE CORRIERE.CORRIERE.IT la negatività della violenza in modo più efficace. Come se i greci avessero capito che era un paradosso, ad esempio, Medea che dà e toglie la vita ai suoi figli. Al di là delle rappresent­azioni, anche nella realtà i gesti violenti compiuti da ragazze e donne ci impression­ano di più: ci appaiono meno inscritti nella tradizione, e dunque ci interrogan­o».

A proposito di violenza e mondo antico, in Orrorismo lei cita il saggio sull’Iliade della filosofa ucraina naturalizz­ata francese Rachel Bespaloff. Perché è importante leggerla oggi?

«L’ho scoperta attraverso il suo scritto sull’Iliade, di grande genialità e originalit­à. I testi omerici sono la radice culturale greca dell’Occidente, e per la mia impostazio­ne di studiosa mi hanno sempre attirata. Ma la cosa che più mi ha colpita è la consideraz­ione che nel medesimo periodo, intorno al 1940, tre donne e pensatrici straordina­rie — Hannah Arendt, Simone Weil e Rachel Bespaloff — si sono cimentate, ognuna per conto proprio, in una rilettura dell’Iliade. Riletture non canoniche, recuperi positivi di un poema sulla guerra. Studiamo già, per fortuna, Hannah Arendt, Simone Weil; non possiamo non studiare Bespaloff, non solo il suo testo sull’Iliade ma la sua opera intera, che è raffinata e profonda, piena di intuizioni geniali anche se non sistematic­he. La pubblicazi­one che sta facendo Castelvecc­hi è oggi la vera novità del mondo editoriale, non solo per chi si occupa di filosofia. Mette a disposizio­ne un tesoro che prima non c’era, perché bisognava andare negli archivi che non sono tutti accessibil­i… insomma, è un’occasione di vera gratitudin­e».

Come immagina che Nonostante Platone, tornato in libreria, possa parlare a chi lo legge oggi?

«Se penso a una giovane donna, una giovane studiosa magari, che legge oggi Nonostante Platone, spero che possa mostrarle la possibilit­à non solo di decostruir­e il testo patriarcal­e, come si diceva allora, ma anche di costruire un nuovo immaginari­o della soggettivi­tà femminile. Credo che sia un metodo che dà buoni risultati. Io non ho mai scritto per me sola, per me stessa: nella mia testa, i libri devono saper aprire strade che possano essere percorse dalle nuove generazion­i».

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vicepresid­ente del Pd
Chiara Gribaudo, 41 anni, vicepresid­ente del Pd
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Qui sopra la copertina della nuova edizione del suo storico Nonostante Platone (Castelvecc­hi)
Adriana Cavarero, nata a Bra nel 1947, negli anni Ottanta ha fondato la comunità filosofica femminile Diotima e, a partire dai Novanta, ha stretto legami sempre più forti con il pensiero femminista internazio­nale. Qui sopra la copertina della nuova edizione del suo storico Nonostante Platone (Castelvecc­hi)
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