Corriere della Sera - Sette

«IL MITO DELLA MADRE PERFETTA HA FATTO DANNI INCALCOLAB­ILI VOGLIO MOSTRARE IL BARATRO (PER PROVARE A SALVARMI)»

- DI DANIELA MONTI

ice che non serve/ Farsi chiamare architetta o avvocata/ Basta lavorare/ Prendiamo il nome dei maschi/ Come spose». «Dopo l’orsa/ Uccidiamo la pressa/ Che ha schiacciat­o l’operaia/ O il muletto/ Che già fa più bestia». «L’Italia è una repubblica/ Fondata sul lavoro/ Delle donne/ Che stanno a casa».

Alessandra Carnaroli – classe 1979, poetessa marchigian­a ora al debutto nella narrativa con La furia, Solferino, nella collana I pavoni diretta da Teresa Ciabatti –ha due ossessioni: la prima per la cronaca, per lo scrivere del qui e ora, aderire con voce bassa alla terra, ai corpi, ai fatti mentre si svolgono; la seconda per il racconto del quotidiano in presa diretta, senza filtri né mediazioni. Un esempio è il suo lavoro su Instagram, dove ha postato, fra le molte altre, le tre brevi composizio­ni poetiche che aprono questa intervista. «Lavoro sulle notizie che mi risuonano dentro producendo un rumore che mi spinge a scrivere», dice. «La mia necessità non è raccontare il mio punto di vita, ma quello della persona comune, la sua reazione di pancia, dettata dalla paura, dall’istinto di autodifesa». Per poi ribaltarla, con un effetto a volte ironico, sempre disturbant­e. Il passaggio dalla poesia alla narrativa com’è stato?

«La furia ha avuto una gestazione molto lunga: la prima parte, composta da 27 racconti che hanno per protagonis­ta Miranda (che può essere una donna sola o ventisette donne diverse) ho cominciato a scriverla una decina di anni fa, poi è rimasta lì, a

Ddecantare. La parte finale, invece, è frutto degli ultimi due anni. Passare dalla brevità della poesia a un respiro più ampio non è stato né semplice, né indolore».

Non è narrativa pura, La furia è scritto con un linguaggio ibrido, che conserva molto della poesia. Se si andasse più spesso a capo, molti passaggi sembrerebb­ero versi: «Le mie figlie mi mangiano/ invece delle carezze mi danno i morsi/ usano la voce come un cucchiaino/ per scavarmi la fossa nel gelato».

«Il ritmo e la musicalità della poesia restano, mi porto dietro un percorso di vent’anni, impossibil­e staccarmi completame­nte. Ha ragione quando dice che è un ibrido, lo stare con i piedi in due staffe, saltellare di qua e di là».

Dove porta questo saltellare?

«Mi dà la possibilit­à di esser immediata, anche nel senso di non-mediata. La poesia l’ho sempre intesa come la ricerca della voce comune, molto bassa, piana, concreta, che ci abita. Nella prosa ho dovuto fare uno sforzo in più, ma il linguaggio ibrido mi ha permesso di conservare quella voce. Ci sono tantissimi riferiment­i a prodotti, marchi, oggetti, parti del corpo, cose concrete. La lingua è sgrammatic­ata, è quella che usiamo quando ci rivolgiamo a chi ci sta accanto, è il tentativo di ricalcare, con una mano il più fedele possibile, quello che accade tutti i giorni. In questa quotidiani­tà poi si inseriscon­o ed esplodono bombe che portano la storia su un altro binario, più tragico».

Da dove nascono le sue ossessioni?

«Per me è un obiettivo riuscire a trascriver­e quello che le donne – quasi sempre sono loro le protagonis­te, madri, figlie, madri e figlie insieme, si partorisco­no quasi a vicenda – fanno dentro casa e fuori, ho bisogno di riportare sulla pagina la verità di ciò che siamo in questo momento. Ciascuno di noi si porta addosso una ferita che in qualche modo ci accomuna e sono più le ferite a renderci simili che le gioie o i successi. Io tocco la tua ferita, ci metto il dito dentro e da lì ti riconosco e riconosco me stessa, ci riconoscia­mo. Questo girare sempre intorno ai piccoli e grandi traumi è quasi una danza. Il mio ultimo libro di poesia si intitola 50 tentati suicidi più 50

ALESSANDRA CARNAROLI DEBUTTA NELLA NARRATIVA CON «LE PROTAGONIS­TE SONO MADRI E FIGLIE CHE SI PARTORISCO­NO A VICENDA»

oggetti contundent­i, una lista della spesa, un manualetto con tutti modi possibili per uscire di scena. Prima di pubblicarl­o ero spaventati­ssima perché non sapevo le reazioni di chi l’avrebbe letto, ma usare le parole concretiss­ime del quotidiano, usare gli oggetti che tutti abbiamo attorno ha avuto un effetto catartico: mi avvicino alla possibilit­à del suicidio, guardo in fondo al baratro e, proprio perché vedo il fondo, riesco a fare un passo indietro, ad allontanar­mene. È questo l’effetto che cerco quando scrivo».

Le sue donne, le sue ventisette Mirande, però non si salvano, si guardano dentro e pensano «che è tutta colpa mia se non riesco a staccare la faccia dal pavimento, non ce la faccio proprio è come se le mie figlie più mia madre più mio marito mi sono saliti tutti sulla testa e stanno lì un po’ a ridere forte, un po’ a piangere, un po’ a starnutire, un po’ a provare a farmi aprire la bocca ma proprio non mi va giù niente...».

«Sì, è vero, in questo momento la mia necessità di autrice è andare a scavare dove c’è il dolore. Spero in futuro di poter raccontare il momento in cui queste persone si alzano, si risollevan­o. Ora l’importante è poter dire: eccoci qua, ci siamo tutti, ci assomiglia­mo tanto, molto più di quello che vorremmo».

I rapporti con gli uomini sono quasi sempre drammatici, come non esistesse un linguaggio comune.

«Quando si parla di violenze sulle donne, e molte delle mie storie raccontano di questo, non c’è possibilit­à di incontro perché c’è troppo dolore. Un’altra delle mie ossessioni – la terza – è per le vittime di violenza: ho fatto una ricerca sugli articoli che parlano di femminicid­io e mi sono resa conto che la vita della donna

«SONO PIÙ LE FERITE A RENDERCI SIMILI CHE LE GIOIE. HO TRE OSSESSIONI E TRE FIGLI: ANCH’IO HO VISSUTO LA PAURA DI NON FARCELA»

viene sempre liquidata in poche frasi, si racconta di lei definendol­a madre o moglie di, mentre a me interessa raccontare la sua vita, il quotidiano, i meccanismi di sopraffazi­one, di cui ci si accorge sempre troppo tardi. Alcune forme di violenza come quella psicologic­a, lo stalking, la riduzione della libertà, sono quasi accettate socialment­e o comunque sminuite nella loro portata: così l’uomo che segue, che controlla, è solo geloso e non sta invece esercitand­o una forma di violenza».

Nei suoi racconti c’è anche il problema della dipendenza dallo sguardo dell’altro, dagli uomini «che magari una sera arrivano che non li aspettavi e vogliono subito fare l’amore, non ti danno il tempo di spogliarti (...) tu con queste persone così non capisci più niente fai tutto quello che ti dicono perché speri che così un giorno ti dicono ti amo ma un giorno così non arriva mai».

«Lo sguardo è centrale nella mia poetica, è un mio bisogno personale, quindi qui mi svelo tanto. Gli occhi ritornano e anche la malattia degli occhi torna in più racconti: se ti vedo tu ci sei, se non vedo te e i tuoi bisogni non sopravvivi».

Neppure la maternità salva.

«Sono cresciuta negli anni Ottanta con la famiglia del Mulino Bianco. Questa narrazione ci ha incatenato per troppo tempo producendo danni incalcolab­ili: se sei una madre perfetta, non puoi che avere figli perfetti e i figli che devono essere perfetti non possono che essere infelici. A me interessa invece vedere quando le cose non funzionano e dire: ok, c’è anche questo dolore, ma nel momento in cui ne parlo lo posso affrontare. Sono madre di tre figli, ho vissuto la paura di non farcela, di non sostenere il carico mentale e fisico di avere un neonato che magari non mangia, non dorme, non cresce come dovrebbe. Parlarne, scriverne, fa capire che quello che provi è condiviso, ti senti dentro qualcosa di più ampio, non so se ti senti confortata, ma quanto meno compresa».

Lei ha percezione di vivere dentro qualcosa di più ampio?

«Sì, altrimenti non scriverei».

 ?? ?? LA COPERTINA DI LA FURIA (SOLFERINO), ESORDIO NELLA NARRATIVA DI ALESSANDRA CARNAROLI. IL SUO ULTIMO LIBRO DI POESIE È 50 TENTATI SUICIDI PIÙ 50 OGGETTI CONTUNDENT­I
(EINAUDI)
LA COPERTINA DI LA FURIA (SOLFERINO), ESORDIO NELLA NARRATIVA DI ALESSANDRA CARNAROLI. IL SUO ULTIMO LIBRO DI POESIE È 50 TENTATI SUICIDI PIÙ 50 OGGETTI CONTUNDENT­I (EINAUDI)

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