L’ETOLOGO: LA VERA TRAPPOLA È LA FRATTURA BRUTALE TRA NOI E IL TERRITORIO
l senso del pericolo per esseri umani che abbiano timore di altri animali dipende strettamente e qualche volta brutalmente dalle tradizioni culturali locali. Nella mia oramai lunga esperienza, se non altro per virtù anagrafica, ricordo lo stupore col quale alcune popolazioni locali “indigene” percepivano le specie animali per loro pericolose. Si tratta di ricordi e sensazioni legate a viaggi nei quali non esisteva la possibilità di scambiare effettivamente informazioni tra me, europeo anche parecchio spaesato, e chi da generazioni occupava quegli ecosistemi. La comunicazione avveniva dunque con cenni e gesta, aiutata da incontri più o meno saltuari con missionari di lingua inglese o francese. Due casi mi stupirono parecchio.
In Tanzania, terra di coloratissimi Masai, percepivo una sorta di sospettoso terrore per la presenza di singoli o piccoli gruppi di bufali, pur in una terra abitata in quegli anni da ampie popolazioni di leoni e altri felini di media taglia. Nel Borneo occidentale, poi, la mia guida (che comunicava soprattutto con gesti e “simulazioni” dei comportamenti di specie animali) a volte si arrestava di colpo, allarmatissima. Con il suo fido lungo un paio di metri, saggiava la reattività di qualche serpente (credo si trattasse del Cobra reale, grande serpente di solito timido e schivo). La spiegazione che trovai allora e considero tuttora la più convincente è quella secondo la quale la mia guida in quella foresta pluviale primigenia, allora quasi incontaminata, saggiava la reattività “emotiva e protettiva” del grosso serpente. Immagino
Isi volesse sincerare che il rettile non stesse in una fase di custodia di uova (o piccoli?), perché la sua spontanea tendenza ad aggredire chiunque si avvicinasse al suo nido lo poteva rendere un pericolo mortale per noi vagabondi esploratori. Se il serpente non reagiva saettando o ergendosi minaccioso e guardingo, potevamo proseguire lungo il sentiero. Altrimenti, si cambiava immediatamente strada arretrando. Venendo ai nostri giorni e alle nostre zone italiane, l’allarme riguarda carnivori di grossa o media taglia come il caso tipico di orsi e lupi (gli sciacalli aumentano di numero ma restano dei rumorosi cagnolini capaci solo di rubacchiare qualche gallina mal custodita).
L’Italia rurale, quella composta di popolazioni che da secoli abitavano i nostri territori, agricoltori o pastori (che talvolta svolgevano entrambi i ruoli, profondamente interconnessi con gli animali del luogo) aveva un rapporto strutturato con i carnivori che coabitavano con gli esseri umani i medesimi ecosistemi. Si trattava di tradizioni che mi azzarderei a definire, forse con edulcorato ottimismo etologico, di reciproco rispetto. Fin da bambini, nonni zii, zie, genitori e cugini trasmettevano alcuni elementi essenziali dell’equilibrato rapporto tra animali e comunità umana. Si conoscevano le zone dov’erano ubicate le tane, spesso la consistenza delle popolazioni animali era nota, come ben note e narrate di generazione in generazione erano quelle “norme di sicurezza” che scoraggiavano dall’avvicinarsi ad alcune zone nel periodo dell’allattamento o allevamento dei cuccioli o del risveglio dal letargo.
Si conoscevano le preferenze alimentari dell’orso, quando le bacche per questi plantigradi prelibate li attiravano in alcune zone precise (dunque da evitare in quei periodi): soprattutto era alfabetizzazione di massa il riconoscimento dell’impronta di lupi o orsi, delle loro feci cospicue e olezzanti, che a ben scrutarle fornivano anche indicazioni su semi, peli, noccioli, che ne svelavano la dieta in quel periodo.
Non va non considerata l’attività venatoria, quella secondo la quale alcuni individui venivano crudelmente abbattuti, anche se temo che oggi non sia un’impresa facile riuscire a stimare la reale consistenza di queste mattanze carnivore. A Monaco, nel delizioso piccolo museo della caccia e della pesca, una intera sezione è dedicata ai marchingegni (difensivi e offensivi) che le popolazioni umane avevano affi