HAGERE UCCISA A 5 ANNI COSÌ NEL 2000 SCOPRIMMO “IL MOSTRO DELL’ESTATE”
I delitti trattati e “risolti” su giornali e tv, i dietro le quinte delle indagini e le vite stravolte dei protagonisti: ecco come funziona il circo mediatico in 7 storie-simbolo raccontate da un inviato. Partiamo dalla prima
Sulla porta della stanza 322 c’era scritto SALA DE CURSURI. Assomigliava a un’aula di scuola, con tre file di banchi e le sedie di legno, la cattedra e la lavagna. Era il luogo dove gli agenti seguivano corsi di aggiornamento e seminari, al quarto piano di un immenso edificio governativo dell’epoca sovietica da poco riconvertito a centrale operativa della polizia di Bucarest. Lo avevano messo al centro, guardato a vista da due agenti. La mano sinistra ammanettata alla base di metallo lo costringeva a tenere la testa china e quasi appoggiata al tavolino. Sembrava un ragazzino in castigo.
Vasile Donciu era chiuso lì dentro da tre giorni. Aveva confessato tutto quel che c’era da confessare, ma i suoi interrogatori continuavano per ragioni che non avevano nulla a che fare con indagini che si erano chiuse con la sua cattura. Era una recita a uso e consumo dei media arrivati dall’Italia. Intorno a lui si muovevano investigatori dall’aria annoiata, ai quali era stato detto di sembrare indaffarati e dediti alla ricerca di una verità che ormai non aveva più misteri. Per esigenze di copione. Forse anche per la necessità della Romania, che in quella estate del 2000 stava negoziando la propria adesione all’Unione europea, di fare bella figura con un futuro partner.
Durante il lungo mese della sua latitanza ci eravamo immaginati l’assassino della piccola Hagere Kilani come una bestia feroce. Venerdì 18 agosto aveva sequestrato, violentato e poi ucciso con un coltello da cucina una bimba tunisina di cinque anni. Nel classico posto dove tutti si conoscono, dove tutti si sentono buoni. Come non esserlo, sul promontorio di Porto Maurizio che domina Imperia, un quartiere fortificato tra cielo e mare dove è bello perdersi tra chiese e palazzi antichi.
Al borgo del Parasio manca solo una lettera per essere un paradiso. Sul selciato della piazza principale c’era un percorso colorato del gioco dell’oca. La famiglia di Hagere abitava proprio di fronte. All’inizio di un pomeriggio assolato, lei era scesa per giocare con un altro bambino, figlio di una turista milanese che li sorvegliava seduta su una panchina. Donciu aveva vent’anni, era romeno e clandestino, come si diceva ancora all’epoca. Aveva qualche precedente penale per furto, viveva a casa di un infermiere del quale era diventato l’amante. Si era avvicinato alla donna, le aveva chiesto se quelli fossero i suoi figli, se venivano qui anche d’inverno. La turista aveva pensato che ci stesse provando con lei. Quando era arrivato suo mari
to, si era subito allontanata con tutta la famiglia. Hagere era rimasta sola con quell’uomo. Si conoscevano. Li avevano visti allontanarsi. Lui la teneva per mano.
Alcune vicende nascono segnate da un senso di colpa generale. Non esiste la sfortuna, quando ci si lascia sfuggire un criminale. Esistono scelte sbagliate, indagini fatte male, e quello che viene dopo è solo un gigantesco tentativo di redenzione. Fare giustizia, certo, ma coltivando con i media un implicito patto a lasciar perdere le omissioni, gli errori, la sciatteria che hanno in qualche modo contribuito a fare sì che le cose andassero ancora peggio. Poco dopo le 13.30, la madre Laila aveva chiamato Hagere dalla finestra. La bambina le aveva risposto, gridando mamma in arabo. Ma non era arrivata. Laila era scesa nella piazza ormai vuota. Aveva sentito ancora la figlia che provava a urlare qualcosa, ma le era sembrato che la sua voce venisse soffocata. Aveva chiamato la polizia, indicando il luogo da dove le era parso di sentire le grida. La casa al civico numero 39 di via Parasio. Aveva chiesto di sfondare la porta. Gli agenti avevano risposto che i proprietari non c’erano, e senza permesso loro non potevano entrare. Era il luogo dove viveva Donciu, e dove verrà ritrovato il corpo senza vita della bambina. Quella porta era stata aperta soltanto nove ore dopo l’allarme lanciato dalla madre. La persona che ci abitava era sparita. Aveva ricevuto in dono quasi un’intera giornata per andarsene indisturbata.
A quel tempo esisteva ancora il delitto dell’estate. Nelle redazioni era una specie di tradizione, sia detto senza alcun cinismo. L’assassino nascosto nell’ombra, gli investigatori che sudano sotto il sole alla ricerca di qualche indizio, la caccia all’uomo, il cerchio che si stringe, le ore contate, tutti luoghi comuni che servivano a riempire il vuoto d’agosto e ad attirare l’interesse di chi legge sulla spiaggia, quando ancora non esisteva la dittatura dello smartphone. I delitti sono sempre stati grandi armi di distrazione di massa, il cui utilizzo talvolta poteva anche sfuggire di mano, come accadrà in seguito. Era al tempo stesso una necessità giornalistica e un dato di fatto, perché secondo le statistiche i crimini violenti aumentano nella stagione calda. A farne le spese sono quasi sempre le donne, ma questa non è mai stata una novità.
Gli storici della cronaca nera fanno risalire la nascita del tormentone estivo al 1955. È il 10 luglio quando due pescatori trovano in riva al lago Alba
no, nei pressi di Castel Gandolfo, il corpo decapitato di una donna. La testa è stata staccata con abilità da chirurgo. Al suo posto, una copia del giornale di cinque giorni prima. La vittima si chiamava Antonietta Longo, detta Ninetta, trent’anni, cameriera al quartiere Africano di Roma, originaria della Sicilia. Di umili origini, come precisano i rotocalchi dell’epoca. «Ho trovato un bravo ragazzo che mi vuole bene e io lo amo pazzamente» scriveva alle sorelle. «Tra poco sarò sua e spero di potervi dare la gioia di un nipote.» Al deposito bagagli della stazione Termini viene recuperata la sua valigia, con dentro il corredo delle nozze. Il promesso sposo rimarrà ignoto. I pochi conoscenti di Ninetta raccontarono di un distinto signore tra i quaranta e i cinquant’anni di età. Una lettera anonima giunta anni dopo a un rotocalco sosteneva che dopo il delitto era partito per le vacanze con la famiglia.
Prima che l’informazione a ciclo continuo e il rullo dei social annullassero anche le stagioni, ogni estate ha avuto il suo delitto. Alcuni presto dimenticati, che non sono mai andati oltre l’autunno seguente, limitandosi ad assolvere la loro funzione di rivali dei gialli da ombrellone. Altri destinati invece a rimanere impressi nella memoria collettiva, diluiti nel tempo, vicende spesso irrisolte diventate tormentone senza più contesto né momento. Soprattutto quando non trovano soluzione e diventano chiodi piantati nella memoria, echi di un’epoca finita che ancora risuonano.
Come il delitto della Cattolica, che chiunque sia cresciuto a Milano ha prima o poi sentito nominare, o letto di sfuggita. 24 luglio del 1971, estate afosa, città deserta. Nei bagni della prestigiosa università viene ritrovato il corpo senza vita di una laureanda in Scienze politiche. Simonetta Ferrero, studentessa lavoratrice, operaia alla Montedison. È stata colpita da trentatré coltellate. UCCISA CON FURIA SELVAGGIA, titola su nove colonne La Notte, lo storico quotidiano del pomeriggio che campa di cronaca nera presentata a caratteri cubitali. L’assassino non verrà mai trovato, e questa storia diventerà una specie di testimone che generazioni di giornalisti milanesi si passeranno l’un l’altro, ogni estate una nuova ipotesi, colleghi che la fecero diventare una ossessione, una ingiustizia riuscita, il delitto che paga, qualcosa che non dà pace anche a chi se ne occupa soltanto scrivendone. Ma fu così che andò. L’estate silenziosa della città protesse l’assassino. Nessuno vide, nessuno sentì, tra gli archi e le volte e le poche tonache che affollavano i chiostri. Molti anni dopo, una lettera piena di dettagli macabri e sconosciuti al pubblico, inviata a un magistrato che si era occupato del caso, indicò l’omicida in un religioso che si era invaghito di Simonetta, e lo invitò a pentirsi. Senza alcun esito.
L’ossessione del pubblico è un’edera che cresce intorno al dubbio. A una versione alternativa, a una colpevolezza che divide, oppure al mistero più insondabile. L’arrivo della scienza nel mondo del crimine è una rivoluzione che almeno da noi sposta poco in termini di certezze. La prova del Dna cambia i metodi di indagine, obbliga scrittori e sceneggiatori e dire addio al vecchio maresciallo, alla leva morale usata per aprire spiragli nella corazza dell’assassino. Ma in un Paese profondamente antiscientifico come il nostro, una verità che si basa sull’elemento genetico non basterà mai, non metterà a tacere ipotesi suggestive e una crescente diffidenza nel lavoro della magistratura.
Anche perché il delitto perfetto esiste. Lo sappiamo dall’agosto del 1990, quando Simonetta Cesaroni viene ammazzata a Roma in via Poma 2. La sua foto più nota la ritrae su una spiaggia. Capelli ricci, costume intero, seduta su un telo, mentre rivolge uno sguardo perplesso all’autore dello scatto. Ha ventun anni, lavora nella sede dell’Associazione italiana Ostelli della gioventù. Apre la porta a qualcuno. Viene trovata poco prima di mezzanotte, nell’ufficio del capo, colpita da ventinove stilettate, forse da un tagliacarte. L’uomo che la uccide ha avuto una intera giornata per denudarla, portarle via pantaloni, slip, maglietta, lasciandole solo il reggiseno arrotolato sotto il collo e le calze. Ha fatto pulizia, lavando con cura quattro litri di sangue, cancellando ogni traccia dietro di sé. Si è guadagnato un vantaggio che la prova del Dna non riuscirà a colmare. Saranno inquisiti il portinaio, unica presenza fissa in uno stabile svuotato dalle ferie, il nipote di un condomino, e il fidanzato di allora, che verrà assolto in via definitiva nel 2014.
L’anno seguente, 10 luglio 1991, avviene il delitto dell’Olgiata, e fino a quando sono entrambi rimasti insoluti, i due casi estivi di Roma verranno sempre citati insieme, come esempio di impotenza davanti al fato, al destino avverso che non ne vuole sapere di far
IL DELITTO PERFETTO ESISTE. COME ACCADDE PER SIMONETTA CESARONI, UCCISA CON 29 STILETTATE MENTRE LAVORAVA IN UFFICIO
combaciare frammenti diversi di indagine. La vittima è una madre di famiglia, la bella e ricca contessa Alberica Filo della Torre, strangolata nella sua villa al mattino presto di un giorno che stava dedicando ai preparativi per il decennale del suo matrimonio. Le sue origini nobili, il clima da jet set, saranno pretesto per false piste e suggestioni su misteriosi traffici di gioielli a Hong Kong, servizi segreti, imprenditori gelosi, immobiliaristi invidiosi, persino sinistri presagi. Durante il suo ultimo viaggio in India, raccontò la madre della vittima, un indovino disse ad Alberica che una volta compiuti i quarant’anni sarebbe stata uccisa.
Gli investigatori andarono dietro a ogni pista, per fumosa che fosse. Più per soddisfare l’opinione pubblica che per reale convinzione. Loro sapevano fin dall’inizio. Ci erano arrivati seguendo la logica. Dalla casa mancavano gioielli di grande valore; c’era un cameriere appena licenziato, che aveva reagito con grandi proteste e scene di rabbia. Ma non c’erano le prove. Arriveranno vent’anni dopo, grazie alla tenacia del marito della contessa, che chiese la riapertura delle indagini perché la polymerase chain reaction nel frattempo sopraggiunta permetteva di ricostruire da un minuscolo frammento di materia organica l’intera catena del Dna. Fu così che Manuel Winston Reyes, l’ex dipendente della contessa, venne scoperto. Prima, non era stato possibile. E se il colpevole non avesse poi confessato, forse saremmo ancora qui a discuterne.
Nel delitto del Parasio mancava il mistero, non c’era materiale per dividersi tra colpevolisti e innocentisti, per trasformare una tragedia in argomento di discussione da fine serata. Rimaneva solo la caccia all’uomo, che non durò poi molto, da raccontare con le solite iperboli sugli sforzi degli inquirenti. Per questo, quel crimine così brutale è stato dimenticato in fretta. Con buona pace di molti dei diretti interessati. Perché poche altre volte si videro tanti errori commessi tutti insieme da parte degli inquirenti, poche altre volte divenne così evidente la fragilità del sistema di controlli affidato alla collaborazione tra le polizie internazionali, del quale spesso i giornali riempiono i propri titoli, quando invece è evidente che spesso si tratta di dispositivi e accordi efficaci solo su carta.
La bambina poteva forse essere salvata, senz’altro il suo carnefice si allontanò indisturbato. Non avrebbe dovuto essere nella piazzetta del borgo, quel giorno di agosto. La prima richiesta di espulsione fatta dalla polizia al tribunale di Imperia risaliva esattamente a due anni prima, quando era stato fermato senza permesso di soggiorno a Sanremo mentre andava in giro con un coltello in mano. Poi erano seguiti altri fermi, altre segnalazioni e denunce per vagabondaggio, per furto, senza che nessuno collegasse quel nome alla prima denuncia. Donciu aveva continuato a guadagnarsi da vivere vendendo il proprio corpo. Senza nascondersi, ignaro del fatto che un mese prima del delitto un giudice aveva infine chiesto l’avvio delle sue ricerche «per comunicare apposito decreto di immediata espulsione». Lui continuò ad abitare nella casa del suo compagno, a cento metri di distanza dalla questura. E quando infine venne scoperto il corpo della povera Hagere, le ricerche cominciarono in modo confuso, con la consueta competizione tra polizia e carabinieri, i soliti equivoci e la trasmissione ritardata all’Interpol della foto del ricercato, che ebbe il tempo di espatriare in tutta tranquillità facendo l’autostop. Ma nel frattempo, in questura c’era un grande vai e vieni di giornalisti e troupe televisive, una conferenza stampa dietro l’altra, anche quando non c’era nulla da dire. Tutta la caccia all’uomo, minuto per minuto.
Questo carico iniziale di errori produsse una reazione uguale e contraria. Quando hai tanto da farti perdonare, è meglio essere generoso con tutti. Così, la morte della povera Hagere divenne il primo delitto dell’epoca recente senza segreti, completamente vissuto in pubblico. Verbali, carte, relazioni riservate. Ogni atto venne messo a disposizione dei media, ogni dettaglio rivelato. Il martirio della bambina, la relazione autoptica, le segnalazioni e gli avvistamenti in diretta del fuggitivo. Perché l’abbondanza di particolari, il retroscena inedito e «le carte» tendono ad allontanare le domande scomode, restituiscono comunque una idea di efficienza e concretezza, e creano infine un patto di mutua complicità con i giornalisti, che tende a lavare o almeno a ignorare ogni peccato. In questo, il delitto di Imperia è stato una anticipazione di futuro, una cerniera tra vecchio e nuovo modo di intendere la cronaca nera, da parte di tutti gli addetti ai lavori. Mettere a disposizione l’intero fascicolo a indagini
LA MORTE DELLA PICCOLA HAGERE DIVENNE IL PRIMO DELITTO DELL’EPOCA SENZA SEGRETI, VISSUTO COMPLETAMENTE IN PUBBLICO
ancora aperte era un modo per comunicare, e per difendersi da eventuali accuse di inefficienza. In quei giorni a Imperia si verificò una inedita promiscuità in materia di delitti, discendente dalla prassi della recente cronaca giudiziaria, che da Tangentopoli in poi aveva introdotto nuove consuetudini di relazione tra i media e le loro fonti.
Nemmeno la caccia all’uomo fu degna del suo nome. All’inizio di settembre, per ben due volte Donciu viene fermato dalle parti di Nizza e riaccompagnato dai gendarmi alla frontiera italiana, come se nulla fosse, come se quel ragazzo di vent’anni non fosse in quel momento una delle persone più ricercate d’Europa. Trascorre un mese in giro per l’Europa, con segnalazioni a Sanremo, a Calais dove non riesce a imbarcarsi per l’Inghilterra. Dalla Francia viene rimpatriato in aereo con il suo vero nome e con un documento di identità fornito dal consolato rumeno. Lo fermano quasi per caso, alla frontiera con l’Ungheria. Sta cercando di raggiungere alcuni parenti nel villaggio di Episcopia. Questa volta dichiara un nome falso, e gli dice male, perché è simile a quello di un bandito locale. Finalmente, qualcuno lo riconosce.
Partimmo tutti per Bucarest. Un solerte funzionario del ministero della Giustizia ci spiegò che Donciu sarebbe stato processato in Romania, ma di stare tranquilli. «Se fossi al posto dei genitori di quella bambina, sarei contento di vederlo affidato a noi» ci disse. «In confronto alle nostre carceri, i penitenziari italiani sono hotel a cinque stelle.» E ci fece l’occhiolino. A molti giornalisti che avevano seguito il caso dall’inizio venne da pensare ai funerali della bambina, alla desolazione di quella piazza vuota, alla solitudine dei suoi genitori. Alla risposta atroce che aveva dato un poliziotto alla turista milanese mentre partecipava alle ricerche di Hagere. «Ma non si preoccupi, sarà in giro come sempre, lo sanno tutti che quella gente non guarda mai i suoi figli». Ci trattavano come una comitiva di tifosi, giunta dall’estero per avere soddisfazione. Il giorno dopo, ce lo fecero vedere. Alla centrale di polizia avevano creato una specie di sala d’attesa per gli ospiti. A ognuno il suo turno, cinque minuti di faccia a faccia con il mostro dell’estate. Nessuno si sottrasse a quella pratica, pochi erano al corrente del fatto che anche gli orari erano calibrati in modo da concedere una esclusiva video a Porta a Porta. Donciu sembrava davvero uno scolaretto. Gli avevano fatto la barba di fresco, lo avevano rivestito con indumenti meno laceri di quelli che indossava al momento dell’arresto. Era gentile, sorrideva pure. Sembrò subito evidente che si trattava di una persona con un deficit cognitivo, alla quale era stato ordinato di dare risposte il più possibile «accattivanti», che cambiavano a seconda dell’intervistatore di turno. A qualche collega disse di avere agito perché in preda all’ecstasy, che, come abbiamo visto, all’epoca stava diventando una paura collettiva. Con altri imbastì una confusa storia sul suo convivente, reo di averlo cacciato di casa per infedeltà, che lui avrebbe deciso di punire uccidendo quella povera bambina. Solo la descrizione dell’omicidio rimaneva uguale per tutti gli interlocutori. Gli avevano detto che quella parte non doveva subire variazioni, per ovvie questioni giudiziarie.
Conosceva già la piccola Hagere. Era una bimba molto bella, tutti la chiamavano «principessa». Lui ne aveva fatto un oggetto del desiderio. L’aveva costretta a seguirlo nella casa dall’amante, strattonandola, tirandola a sé. Dopo, spunteranno testimonianze di persone che avevano assistito all’adescamento, alle proteste della bambina, ma come disse la turista milanese che ben conosceva quel borgo, esisteva un pregiudizio diffuso su quella famiglia tunisina, il solito. Come da copione, Donciu chiese perdono e disse che gli dispiaceva, senza mai dare l’impressione di capire fino in fondo il senso delle parole che pronunciava. Come se fosse una recita imposta dai suoi carcerieri. Negli anni seguenti, tenterà più volte di togliersi la vita in carcere.
Quell0 di Bucarest fu un happening orrendo, che finì anche male. Quando i giornalisti della stampa scritta capirono che l’intervista sarebbe andata in onda quella sera stessa, decisero di ridimensionare o azzerare lo spazio previsto per il racconto del colloquio con l’assassino della bambina. All’epoca succedeva spesso, perché la rivalità con il mezzo televisivo era molto più sentita di quanto non lo sia oggi. In modo bislacco, il delitto di Imperia rimane come una piccola anticipazione della cronaca nera del futuro, vissuta in pubblico da ogni addetto ai lavori. Con i media che da spettatori neutrali diventano strumento da usare. Sempre in diretta, mai in silenzio. Neppure quando sarebbe necessario.
IN QUEL PERIODO I MEDIA DA SPETTATORI NEUTRALI DIVENTARONO STRUMENTO DA USARE, SEMPRE IN DIRETTA