«IL CODICE “ETICO” DELLE TRIBÙ ULTRAS O I TIFOSI SPENNATI DEL CALCIO DI OGGI?»
Ama il cinema estremo, «i film scomodi, capaci di raccontare storie altrimenti inaccessibili, e i registi che portano la macchina da presa oltre la traccia comune». Vide Fitzcarraldo di Werner Herzog e si innamorò di quel viaggio borderline nella giungla dell’Amazzonia. In oltre vent’anni di documentari ispidi e incuriositi Andrea Zambelli, 48 anni, laurea al Dams, ha sempre scelto la strada più dura. «Facile è un aggettivo che non mi s’addice. Faccio film su argomenti per cui i media, spesso, storcono il naso», spiega. Deheishe refugees camp, una regia collettiva, fu girato in Palestina durate la seconda Intifada, Irrawaddy mon amour in Myanmar durante il primo regime militare, Mercancia in Colombia tra i campesinos ei cocaleros del Magdalena Medio. «Nel 2016, in un campo profughi di Salonicco ho raccontato l’attesa di una famiglia siriana che durava da due anni, mentre la mia coregista teneva lezioni d’inglese e io organizzavo cineforum per i bambini con i cartoni animati. I mass media si focalizzano sugli sbarchi, ed è giusto. Ma il veleno dell’attesa uccide la speranza».
Zambelli debuttò nel 2001 con Farebbero tutti silenzio, ritratto «dal basso» della Curva Nord dell’Atalanta, covo di passioni, codici guerreschi e gesti di solidarietà. Ventidue anni dopo, per chiudere il cerchio, ha portato al Torino Film Festival A guardia di una fede, coproduzione di Rossofuoco e Lab80 Film, report di una storia tormentata e di come siano cambiati gli ultras e il calcio. «Da fiaba domenicale, un po’ romantica, a show orwelliano dominato dal business, con i tifosi trasformati in clienti da spennare». È il calcio delle superleghe, dei diritti tv, dove «più dei meriti sul campo contano i fatturati». Il risultato, dice, è che «abbiamo spento le violenze, e questo
va bene, ma abbiamo perso di vista il concetto di partita e di sport».
Zambelli ha raccolto filmati che vanno dal 1998 a oggi. La voce narrante è il leader storico della Curva, Claudio “Bocia” Galimberti, trent’anni di Daspo sulle spalle e una storia di processi, condanne, interrogazioni parlamentari e un esilio da Bergamo che lo ha portato a coltivare cozze nelle Marche, a Sinigallia. «Claudio soffre di non poter essere sugli spalti. Ma ha trovato una nuova vita. E non dimentica le radici». Nel film compaiono in immagini di repertorio il presidente atalantino Antonio Percassi, gli allenatori Emiliano Mondonico e Gian Piero Gasperini, l’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, campioni ed ex campioni della Dea. Zambelli spiega: «Per chi è cresciuto a Bergamo la Curva è uno spazio che prima o poi ti trovi a frequentare. Per molti ragazzi della mia generazione ha segnato il momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. A guardia di una fede è la sintesi di un viaggio attraverso il tempo, dagli scontri degli anni Novanta alla repressione, fino agli spalti vuoti per il Covid».
Zambelli rammenta la lezione dell’etologo britannico Desmond Morris, aucon tore de La tribù del calcio: «Ho avuto la fortuna di conoscerlo mentre stava scrivendo una nuova edizione del libro. Desmond conosce l’Atalanta e la sua storia. Per descrivere il senso di una partita parla di caccia rituale, battaglia stilizzata, dimostrazione sociale, cerimonia religiosa, intesa commerciale, rappresentazione teatrale. La tendenza oggi è di trasformare il match in una sorta di salotto virtuale per il consumo privato». Aggiunge: «Non bisogna confondere ultras con hooligans, fenomeni diversi, espressione di realtà diverse. Le curve italiane nascono negli anni Settanta, una forte componente politico-sociale e aspetti di solidarietà. Il tifo organizzato è una faccenda di comunicazione attraverso cori, striscioni eccetera. Poi ci sono regole. C’è un codice etico, c’è il rispetto. Non si attaccano tifosi a caso: l’ultras se la fa con gli ultras avversari».
Ricorda gli esordi nel cinema: «La mia generazione è figlia dell’accelerazione digitale, quando montare un film non era più un’impresa impossibile. All’epoca ero uno studente impegnato politicamente. Cominciavi a chiederti: ora cosa racconto? In quel periodo ero attratto dalla dinamica della Curva più che dal tifo classico. Non sono mai stato un ultras. Mi potrei definire un cane sciolto. Quello era uno spazio che conoscevo. Ed è nato Farebbero tutti silenzio. Per vent’anni sono stato in giro. Ho abitato a Bologna, a Torino, ho fatto tanti viaggi. Però ogni volta a Bergamo tornavo lì, tenevo contatti, facevo riprese, acquisivo materiale». Oggi vive «sulla strada per le montagne» e ha una figlia di sette anni, Viola. Si è appassionato al cinema vedendo i film di Pier Paolo Pasolini, i capolavori russi, il regista sovietico Sergej Ejzenštejn. Sono rimasti i suoi punti di riferimenti. Ha raccontato gli adolescenti della Palestina: come crescono in un campo profughi e qual è il loro rapporto con la morte. Ha descritto una Gaza diversa di rapper, parkouristi, giovani giornalisti, pastori e contadini. Ma della situazione attuale preferisce non parlare: «Sono troppo sconvolto emotivamente». In Birmania ha raccontato il primo matrimonio omosessuale. Il prossimo step sarà un film di fiction. «Per tanti anni i documentari mi hanno dato la quota di verità di cui avevo bisogno. Ora sento che quella quota, in questo putiferio di mondo, si è abbassata. Forse è il momento di passare a una fase nuova».