TRE MILIARDI ALLE URNE L’INCOGNITA AMERICANA
Al voto il 40% della popolazione, con 5 grandi sfide capaci di cambiare gli equilibri internazionali. Cominciando dall’Europa
Esarà un anno di elezioni, come non si è mai visto. Nel 2024 si voterà in 76 Paesi. Saranno chiamati alle urne ben oltre 3 miliardi di cittadini, il 40% della popolazione mondiale. Voteranno i cittadini di 8 dei dieci Paesi più popolosi della Terra: India, Indonesia, Bangladesh, Brasile, Messico, Pakistan, Russia e Stati Uniti. Oltre 400 milioni di elettori sceglieranno i 720 deputati del Parlamento europeo nei 27 Paesi dell’Unione, in quello che rimane il più grande esercizio transnazionale di democrazia del mondo.
Non tutte le consultazioni saranno uguali. Solo in 43 nazioni ci sarà un voto pienamente libero, mentre nelle altre mancheranno in tutto o in parte le condizioni essenziali che definiscono un’elezione democratica: libertà di espressione e associazione, libera partecipazione di ogni forza politica, accesso paritario ai media.
Ma restringendo il campo, saranno probabilmente cinque i voti del 2024 in grado di influenzare, alcuni anche pesantemente, l’ordine mondiale.
Saranno ibride, combinando elementi di democrazia e autoritarismo, le elezioni di primavera in India, dove ha diritto al voto 1 miliardo di persone. A dispetto, o forse anche grazie a una sistematica limitazione delle libertà civili, il premier ultranazionalista Narenda Modi verrà probabilmente riconfermato. Gli indiani o, meglio, la maggioranza indù, rieleggeranno in lui il leader che ha fatto del Paese asiatico una grande potenza dell’Indo Pacifico.
Nell’attesa del voto di giugno, anche questo ibrido, sta scrivendo una pagina di Storia il Messico, dove Claudia Sheinbaum, 61 anni, scienziata e manager di successo, potrebbe essere la prima donna a diventare Presidente, in un Paese tradizionalmente per soli uomini. Ex governatrice di Città del Messico e candidata di Morena, il partito di sinistra populista del Presidente uscente Andres Manuel Lopez Obrador, Sheinbaum è in testa ai sondaggi con buon margine. Forse ancora più sorprendente è che anche l’avversario più in grado di contendergli fino all’ultimo l’elezione sia una donna, l’ex senatrice di origini indigene Xochitl Galvez, 60 anni, candidata dell’alleanza conservatrice Fuerza y Corazón por México.
Non sarà invece né libera, né democratica, l’elezione presidenziale in Russia, dove Vladimir Putin veleggia verso la quinta conferma, che lo lascerà al Cremlino fino al 2030, con la possibilità di un ulteriore rinnovo fino al 2036 (grazie a una modifica della Costituzione tagliata su misura per lui) e sulla strada per battere il record di longevità politica di Iosif Stalin. La sua certa rielezione, in un paesaggio di (pochi) finti avversari e dominio pieno e incontrollato dei media, rafforzerà l’intransigenza di Putin sull’Ucraina, dove continuerà la sua guerra di attrito nell’attesa che, a novembre, le elezioni presidenziali negli Stati Uniti producano l’esito da lui sperato.
Quale sia il risultato americano sul quale lo Zar ha puntato le sue carte è risaputo e se le elezioni per la Casa Bianca si tenessero oggi, Putin probabilmente vincerebbe la scommessa: stando ai sondaggi Donald Trump batterebbe il presidente in carica Joe Biden.
Ci sono varie ragioni che spiegano le difficoltà di quest’ultimo: la percezione, non sempre fondata, che l’attuale Amministrazione non abbia migliorato economicamente la vita delle persone; l’età di Biden; la politica di sostegno incondizionato a Israele, che potrebbe alienargli i voti delle numerose comunità
che a suo dire lo hanno tradito. Soprattutto, vuole occupare e plasmare lo Stato ben oltre la tradizione dello spoil system. Ad aiutarlo, Project 2025, un piano messo a punto e finanziato dalla ultraconservatrice Heritage Foundation, che sta già selezionando 4000 fedelissimi da piazzare in tutti i posti sensibili dell’apparato statale. Non dovrà più succedere che qualcuno si rifiuti di manipolare un risultato elettorale non gradito a Trump, come accadde nel 2020. Obiettivi: distruggere lo “Stato profondo”, smantellare le istituzioni che strutturano la democrazia americana, dal Dipartimento della Giustizia alla stessa FBI, cancellare le conquiste dei democratici che datano dal New Deal, a cominciare dalla Social Security.
Sul piano della politica estera, Trump tornerebbe al più antico isolazionismo repubblicano, optando per una politica estera transazionale e rinunciando alla leadership dell’Occidente. Questo potrebbe portare alla fine della Nato. Di certo, finirebbe il sostegno americano all’Ucraina e Putin avrebbe via libera per costringere Kiev a un accordo nei suoi termini. Aumenterebbero i rischi di uno scontro militare con la Cina.
Anche per questo, le elezioni per il Parlamento europeo del prossimo giugno acquistano una valenza politica che va ben oltre la distribuzione dei seggi nell’aula di Strasburgo, dove verosimilmente saranno ancora popolari e socialisti i due gruppi più numerosi, nonostante le forze populiste potrebbero rafforzarsi. Ma il punto è un altro, lo scontro nelle urne europee è tra due visioni dell’Europa: quella fondata sull’affermazione dei propri valori universali, più integrata politicamente e militarmente, solidale economicamente e che ambisce a un ruolo geopolitico nel nuovo mondo multipolare. E quella sovranista, mercantilista e lacerata, inevitabilmente destinata alla marginalità e all’insignificanza.
E sono anche l’incertezza della partita americana e i rischi che vi sono connessi, a invocare la necessità di un’Europa forte e coesa, sotto una guida prestigiosa e autorevole. Il dibattito delle scorse settimane sull’eventuale scelta di Mario Draghi alla presidenza della Commissione europea va visto proprio in questo contesto. Una forte maggioranza europeista nel Parlamento dell’Ue sarebbe un elemento indispensabile, ancorché non il solo, di questo scenario.