SE DISSACRARE LA MADRE DIVENTA IL MODO PIÙ INTIMO PER DICHIARARLE AMORE
«Sono appena nato e già mi vergogno di chi mi ha messo al mondo», scrive Antonio Franchini in Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio). Chi lo ha messo al mondo è Angela. Madre invadente, chiassosa, prepotente, illogica, iraconda, rabbiosa, priva di tenere
Ma poi: cos’è la tenerezza? Il romanzo racconta esattamente lo scambio di tenerezza lì dove pare altro. La grazia lì dove ha le sembianze di assenza di grazia.
«Meglio ca te facevo ricchione, ca ‘e ricchiune vonno bene a ‘e mmamme…» protesta Angela. E anche, in ospedale, accudita dal figlio: «Quando viene tua sorella? Tu non me sierv’ a un cazzo…”
Attraverso un libro meravigliosamente senza pudore l’autore fa coincidere a pieno la forma, la scrittura, con il carattere della protagonista. E questa forma – chiassosa, rabbiosa, lontanissima dall’indole del figlio narratore – è una dichiarazione d’amore.
Non narrando di buoni sentimenti, dissacrando la madre e sé stesso figlio, Franchini restituisce la più intima rappresentazione di maternità degli ultimi anni – azzerate le discussioni su buona e cattiva madre, buona e cattiva educazione.
Poco conta quanto in Angela ritroviamo le nostre madri, Angela è archetipo (rovesciato? Non ne sono certa).
Così io ricordo le volte che mi sono vergognata di mia madre per come grigia, scarpe basse, stonava in mezzo alle altre madri. Delle volte che mi lamentavo di lei – e lei depressa a letto. L’universale di Il fuoco che ti porti dentro perciò non è il grado di identificazione coi personaggi, ma quanta corrispondenza riconosciamo in quel materno (l’universale, ovvero la letteratura). Il fuoco che ti porti dentro è un’invettiva sentimentale con precipitati di tenerezza («quando era la mia giovane madre») in cui l’autore, meglio di qualsiasi madre (a contraddire la retorica del se non sei donna e madre non puoi capire) coglie l’essenza della maternità.
«È una primavera lenta» scrive verso la fine – e fa pensare alla dissolvenza lenta dei ricordi, alle notti azzurre di Joan Didion: «Quando le notti azzurre volgono al termine (e finiranno, e finiscono»). In quella primavera ci sono tutte le madri esistite e quelle che verranno e io penso a quando mia figlia si vergogna di me: le volte che scrivo alle amiche, intervenendo nelle loro cose. Perché non sa dello sforzo che faccio a non contattare i maschi che la trattano male (normali conflitti), non sa che io, cinquantenne, recuperati di nascosto i numeri di quei maschi tredicenni, scrivo: «Vaffanculo, piccolo stronzo». Poi cancello, poi riscrivo. Non invio. Per adesso.
NEL ROMANZO DI FRANCHINI CI SONO TUTTE LE MAMME ESISTITE E CHE VERRANNO. ANCHE IO, QUANDO MIA FIGLIA SI VERGOGNA DI ME