L’intuito politico gli dà un’occasione storica: Berlusconi governi, non compiaccia il popolo
Ci sono intellettuali che vivono la vittoria del centro-destra in perenne allarme, con il Cavaliere nelle vesti del Grande Fratello di Orwell. La realtà della maggioranza è ben diversa: pare piuttosto un vago addensamento nebuloso, senza nerbo né spina dorsale, diviso su quasi tutto. I casi di indecisionismo non sono pochi e riguardano materie non marginali. Ma il ritardo nel decidere produce impotenza e getta ombre sul leader
sistono persone nel nostro Paese – per lo più intellettuali – che, dopo l’ascesa al governo della maggioranza di centro-destra, vivono in perenne allarme. Esse vedono incombere sull’Italia una svolta autoritaria; paventano l’insediamento di un regime; sentono profilarsi all’orizzonte qualcosa come il 1984 di Orwell: con Silvio Berlusconi nelle vesti del Grande Fratello che, disponendo di giornali e di tutte le reti televisive (Rai più Fininvest), imbonisce la gente manipolandone l’animo e le menti.
La maggioranza di centro-destra c’è effettivamente, ma lo spettacolo che essa offre è, a dire il vero, tutt’altro. È quello non di un’aggregazione di forze con un minimo di coesione, come dovrebbe essere una maggioranza vera e propria, quanto piuttosto di un vago addensamento nebuloso, senza nerbo né spina dorsale, incapace di concepire un progetto concorde e diviso quasi su tutto.
Alcuni di questi effetti erano, naturalmente, da mettere in conto e da prevedere in anticipo. Il nuovo governo si regge su una coalizione: era inevitabile che, come tutte le formazioni consimili, soffrisse di divisioni interne. Inoltre – e anche questo era noto – le forze che compongono la coalizione sono eterogenee e diversissime tra loro. La Lega è un movimento regionale animato da un disegno federalista. Il Msi-An ha una visione centralista, e perciò opposta, dello Stato. Forza Italia, da parte sua, è un’ondata tuttora in attesa di essere contenuta e strutturata. Si aggiunga ancora l’inconveniente – anche questo prevedibile – della totale inesperienza di governo delle forze chiamate a dar vita al nuovo Ministero.
La Prima Repubblica ha ceduto quasi di colpo, travolgendo un’intera classe politica che aveva governato ininterrottamente per poco meno di mezzo secolo. Era ineluttabile che gli homines novi, provenienti dai mestieri e dalle professioni, cioè dalla società civile, fossero non solo ignari o insipienti nell’uso delle leve dello Stato e dell’amministrazione pubblica (non meno che nel districarsi tra i regolamenti parlamentari), ma costituissero, ciascuno preso a sé, altrettante incognite.
Giovanni Sartori osservò, qualche tempo fa, su queste pagine che il governo annovera molti ministri di serie B e qualcuno anche di serie D. Aveva certo ragione. Nel Gabinetto compaiono, in posti di grande responsabilità, persone che sarebbe stato bene lasciare dov’erano.
LA PRIMA REPUBBLICA HA CEDUTO DI COLPO: PREVEDIBILE L’INSIPIENZA DEGLI HOMINES NOVI DELLE PROFESSIONI A USARE LE LEVE DELLO STATO
Anche se è pur vero che, in genere, solo la pratica consente di discriminare, nel vivo, tra chi abbia o meno capacità politiche.
Se si considera, inoltre, che il governo è nella pienezza dei suoi poteri da una cinquantina di giorni e che, in questo lasso di tempo, il presidente del Consiglio ha avuto impegni internazionali che lo hanno assorbito non poco – come la visita di Clinton a Roma, l’incontro con Kohl, il vertice di Corfù e ora il G7 a Napoli –, sembra equanime invocare delle attenuanti e sospendere ancora il giudizio.
Resta tuttavia lo spettacolo – che, qualora perdurasse, produrrebbe disorientamento (oltre che danni assai gravi) – di un governo paralizzato nei suoi movimenti, dove ogni iniziativa di qualsiasi ministro, appena abbozzata, viene
L’IMPRESSIONE È CHE IL CAPO DELL’ESECUTIVO FATICHI A IMPUGNARE CON MANO FERMA E SICURA LE REDINI DEL POTERE
subito sommersa da critiche e dissensi non solo per mano degli alleati ma dalla parte stessa di cui quel ministro è espressione, così da approdare infine, come per un ultimo appello, sul tavolo del presidente del Consiglio, il quale spesso, per quieto vivere, la chiude nel cassetto.
Il disegno circa la manovra economico-finanziaria è un caso a sé che, per la sua complessità, richiede (com’è del tutto comprensibile) una gestazione laboriosa. A parte ciò, i casi di indecisionismo, in cui l’autorevolezza del governo rischia di venire seriamente compromessa, sono però non pochi e tutti riguardano materie non marginali. Si tratta, per ricordarne solo alcuni, della nomina del nuovo direttore generale della Banca d’Italia, di cui ha già scritto più d’una volta Mario Monti su queste pagine. E, ancora, delle misure predisposte dal guardasigilli per aprire una soluzione giudiziaria alle vicende di Tangentopoli. Per non parlare, infine, delle modifiche connesse alla riforma della legge elettorale (doppio turno o uninominale all’inglese), dove sorprende, a dir poco, lo stato confusionale in cui versa tuttora Forza Italia.
Causa di diatribe oltreché di logoramento all’interno della maggioranza, il ritardo nel decidere su queste misure produce un effetto di impotenza che getta ombre su chi ha la responsabilità di coordinare e guidare l’azione di governo. Perché, infatti, lasciare che vengano messi in pubblico e portati allo scoperto argomenti su cui non ci si è consultati a sufficienza all’interno della maggioranza o su cui è risultato finora impossibile trovare una linea comune?
Il sospetto è che venga alla luce un limite che tocchi la persona stessa del presidente del Consiglio. L’impressione è che egli provi fatica a impugnare con mano ferma e sicura le redini del governo, facendo valere, quando occorra, la propria volontà non solo presso gli alleati ma anche verso i suoi stessi seguaci. E ciò, non solo o non tanto per paura di prendere decisioni sbagliate (come, pure, sarebbe comprensibile), quanto per il timore di rompere – decidendo – quella sorta di idillio o di incanto che siè creato tra lui e il favore popolare.
Assai spesso, governare è sfidare l’impopolarità. Ciò è tanto più vero nelle condizioni italiane, in cui il contenimento, non dico il riassetto della finanza pubblica, impone drastici tagli nelle spese dello Stato e un prelievo fiscale non meno impietoso che nel passato.
È dinanzi a ciò che Berlusconi traccheggia e rilutta. Ma sbaglia. Giacché non si governa per compiacere il popolo: il che porta, tra l’altro, a perderne presto anche il favore. Ma ci si avvale del consenso che si è riscosso e della forte maggioranza di cui si dispone, per curare gli interessi basilari del Paese, anche con provvedimenti che, sulle prime, dispiacciano.
Lo stesso si dica per l’intreccio e la confusione di interessi privati e pubblici che conseguono dall’essere il presidente del Consiglio tuttora proprietario della Fininvest. È un sofisma il dire che l’elettorato ne era a conoscenza e che, ciò nonostante, ha espresso il suo consenso. Visibilmente, non poche delle incertezze e titubanze nell’azione di governo derivano da questa anomalia e dal disagio che Berlusconi stesso deve avvertirne. Si decida, dunque, a recidere questo vincolo che lo irretisce e lo impaccia. L’occasione che il proprio intuito politico e la sorte gli hanno offerto è storica. Si tratta di governare il Paese per un lungo tratto di anni. Bisognerebbe essere peggio che miopi, per lasciarsela sfuggire di mano.
ESSERE PROPRIETARIO DELLA FININVEST CREA A BERLUSCONI UNA CONFUSIONE DI INTERESSI PRIVATI E PUBBLICI DA RECIDERE