L’INTER DI INZAGHI UN’ESPERIENZA ESTETICA ED EMOZIONALE
Per noi interisti vincere non è semplice. È un fenomeno da lettino di psicanalista, già più volte studiato. Diciamo, per banalizzare, che soffriamo da molti anni di una sindrome da nobili decaduti, avendo passato la gran parte della nostra vita a rimpiangere il tempo che fu, quei favolosi anni Sessanta in cui vincevamo tutto: Sarti-Burgnich-Facchetti-Bedin-Guarneri-Picchi con quel che segue (litania che, lo giuro, mi ha recitato una volta con trasporto un austero e gigantesco pope greco-ortodosso mentre ero in fila davanti al Santo Sepolcro a Gerusalemme, violando per un istante la spiritualità del luogo pur di mostrare a un italiano che se ne intendeva di calcio).
Per di più, la nostra squadra si porta tradizionalmente addosso il marchio d’infamia di un gioco considerato speculativo, di rimessa, furbo e sparagnino, niente a confronto con la bellezza della grande scuole calcistiche del Barcellona o del Real Madrid, e in Italia del Milan di Sacchi o dell’ultimo Napoli di Spalletti. Tanto per dire: un intellettuale di fede nerazzurra ha scritto addirittura un trattato sull’“interismo-leninismo”, ovvero la concezione materialistica del calcio secondo Mourinho. Perciò anche quando si è vinto, con Trapattoni alla fine degli anni Ottanta o con Conte tre anni fa, ho festeggiato sì, ma sempre con il retropensiero di aver strappato la vittoria con destrezza, invece che con l’incedere sontuoso e autocompiaciuto di altri club. Per esempio: pur conservando religiosamente le prime pagine storiche della Gazzetta dedicate ai trionfi nerazzurri, mi sono di recente accorto di non aver collezionato nessun cimelio dello scudetto di Conte, da me inconsciamente e ingiustamente snobbato.
Per cui potrete capire la gioia, la soddisfazione, perfino l’orgoglio con cui da un paio di anni seguo l’Inter di Inzaghi: un calcio così bello non l’avevo mai visto. Magari più vincente sì, ma più bello di così mai.
Non starò qui a spiegare i motivi tattici e tecnici per cui l’orchestra nerazzurra quest’anno soddisfa i palati più fini (anche se vorrei in realtà fare sfoggio qui di tutta la mia competenza calcistica, incomprensibilmente mai riconosciutami, e segnalare per esempio il numero esorbitante di gol realizzati o ispirati, o entrambe le cose, dai difensori, segno certo di un collettivo dove tutti fanno tutto e sono dappertutto). Ma voglio almeno elevare un ringraziamento al manager (Beppe Marotta, un ex juventino, dunque aduso a vincere) che ha messo in piedi uno squadrone senza avere i soldi per comprare i giocatori di grido, ma scegliendo i migliori “svincolati”, i “rifiutati” dagli altri, quelli considerati “finiti”. E ovviamente all’allenatore, capace di fare qualcosa che ormai solo in pochi riescono a fare nel calcio moderno: innovare.
Poi magari lo scudetto non lo vinceremo, tra dieci giorni il Milan ci batte e comincia la più clamorosa rimonta della storia della Serie A. Ma, se anche così fosse, l’esperienza estetica ed emozionale che ci ha regalato quest’anno l’Internazionale è qualcosa che racconteremo ai nipoti, nelle lunghe sere d’inverno in cui avremo ricominciato a perdere.
SONO TIFOSO, VA BENE, MA LA NOSTRA SQUADRA SI PORTA(VA) ADDOSSO IL MARCHIO D’INFAMIA DI UN GIOCO DI RIMESSA, FURBO E SPARAGNINO