«SCRIVO ROMANZI CHE FANNO STARE BENE» UN CASO FRANCESE
L’autrice da un milione di copie spiega lo stile feel good. «Mio padre, un alcolizzato. Ero insicura e triste, ma poi ...»
Scrive nella sua casa di Bordeaux, un po’ di notte e un po’ dopo avere accompagnato a scuola i figli di 12 e 5 anni. I suoi romanzi parlano raramente di coppia, «forse perché la mia è piuttosto stabile», ma senz’altro di amore o comunque affetto, quello tra amici, o tra nonni e nipoti. Origini tra Roma e la Sicilia, estrazione operaia e quindi certo non addentro ai misteri delle case editrici di Saint Germain des Prés, Virginie Grimaldi è un’ex assistente alle vendite, «più o meno una segretaria», che l’anno scorso in Francia ha venduto oltre un milione dei suoi libri, ormai una decina. Dicono di lei che scrive romanzi feel good, cioè che fanno stare bene, definizione che le piace molto se usata dai lettori, meno quando esce dal sussiego dei critici letterari. E dire che è difficile trovare un lieto fine nei suoi libri. Forse fanno stare bene perché ci sono tanti personaggi, raccontati con grazia e sottigliezza psicologica, ed è difficile non trovarne uno nel quale immedesimarsi. In Italia è appena uscito Quel che resta (Edizioni E/O), che parla dell’incontro tra la 33enne Iris, il 18enne Théo e Jeanne, 74 anni, tre solitudini che si confrontano in una nuova e sorprendente vita in comune.
Cosa rende questo romanzo diverso dagli altri?
«È un romanzo corale ed è la prima volta che mi metto nei panni di un’anziana signora e di un giovane uomo. Mi piace seguire i miei desideri, e i miei desideri sono molto mutevoli. Quindi tutti i miei libri sono molto diversi».
E anche in Quel che resta l’amore romantico non è il motore della storia.
«No, non lo è mai nei miei libri. C’è la perdita dell’amore con il personaggio di Jeanne, è vero, ma sono più interessata a esplorare le amicizie, i legami familiari e filiali».
Come mai?
«Forse perché ho un matrimonio senza troppi scossoni e pochi colpi di scena da raccontare (dice ridendo). Mi interessa l’amore che prende forme diverse, che può essere forte quanto quello verso il proprio partner. Ma in questo romanzo c’è la figura di Jeanne ispirata a quella di mia nonna, che ha vissuto con mio nonno per 67 anni. Mio nonno purtroppo è morto quest’estate, quindi è tutto molto recente. Non se ne era ancora andato quando ho scritto il libro, e quella era la mia grande paura, perché pensavo: cosa le succederà senza di lui? E alla fine, scrivendo, esploro anche le mie paure e le mie ansie, e questo mi ha permesso di prepararmi un po’».
La figura di Théo invece evoca un’adolescenza difficile.
«È un tema che volevo affrontare perché anche la mia è stata piuttosto diffi
cile. Ho pensato che l’incontro tra due generazioni lontane fosse interessante». Com’è stata la sua adolescenza?
«Ero insicura, angosciata, cupa. È vero che non parlo molto della mia vita privata nei media, ma ne metto molta nei miei romanzi. La scorsa estate ho perso anche mio padre, che era un alcolizzato. È una condizione terribile che fa molte vittime. È riuscito a superarla all’età di 60 anni, ma si è ammalato poco dopo. So che cosa significa essere un adolescente in pena, e ho cercato di raccontare questo aspetto nel personaggio di Théo». Per questo scrive?
«Sì, anche se ho cominciato prima, il desiderio di scrivere è nato non appena ho saputo leggere, quando mi sono resa conto del potere delle parole e di quanto potessi evadere nei libri, nella lettura. Volevo scrivere fin da piccola, e ricordo che le mie prime tre pagine le ho scritte a otto anni e le ho date da leggere a mio padre».
E quale è stata la sua reazione?
«Mi ha detto che era troppo lungo… In effetti non c’era trama, solo il racconto infinito di un tramonto».
Quando ha capito che forse sarebbe riuscita a scrivere per mestiere?
«C’è voluto molto, perché nella mia famiglia non conoscevamo nessuno dell’ambiente, e pensavo di non avere il talento necessario».
In Francia si parla molto di questo, Annie Ernaux lo ha fatto anche nel discorso di accettazione del premio Nobel: la convinzione di non essere legittimati a scrivere perché non si è cresciuti in una famiglia di letterati.
«Sì, si ha l’impressione di essere tagliati fuori da un mondo che è inaccessibile. Avrei voluto studiare letteratura ma, provenendo da una famiglia piuttosto modesta, ho dovuto lavorare rapidamente per guadagnarmi da vivere».
E allora come è diventata una scrittrice?
«Nel 2009 ho aperto un blog e sono stati i lettori a dirmi ma tu hai talento, devi scrivere un libro. Mi sono detta che
forse potevo dare una possibilità al mio sogno. Ancora oggi sono la prima a sorprendersi di quello che mi è successo. So anche che domani tutto potrebbe finire e ne sono stata consapevole fin dall’inizio. Ma mi sto godendo tutto questo, scrivere mi permette di esprimere me stessa, mi fa sentire meno sola».
Era anche questo il problema nella sua adolescenza, la solitudine?
«Mi sono spesso sentita sola con la mia ipersensibilità. Da adulta le cose vanno molto meglio, anche grazie alla scrittura. I libri mi permettono di lasciare un pezzo di me ai miei figli. Quando vorranno conoscermi davvero come la donna che sono, non dovranno fare altro che leggere i miei romanzi. E questo è fantastico».
Dopo il blog che cosa è successo?
«Ho scritto il mio primo romanzo, avevo circa trent’anni. Ho inviato il mio primo manoscritto, che è stato rifiutato. Ma il secondo ha trovato una casa editrice pronta a pubblicarlo, e così la mia vita è cambiata. E non parlo tanto del successo e delle vendite, ma della possibilità di vivere scrivendo, facendo quello che mi piace. Quando mio padre è mancato, scrivere mi ha salvato. Mi permette di riparare le ferite, di esplorare altre vie». Perché ha così tanto successo, secondo lei?
«Ho una sindrome dell’impostore molto sviluppata, ma ormai i romanzi che piacciono ai miei lettori cominciano a essere tanti, quindi forse ho un mio stile, una mia qualità di scrittura. E tratto di argomenti che toccano le persone, parlo della vita quotidiana di tanti lettori». Come mai vende milioni di copie ma non è una personalità mediatica?
«Forse anche perché non dedico molto tempo ai saloni letterari, alla televisione. Lo dico senza snobismo, sono davvero molto felice e grata a tutti per il successo e le attenzioni, è una fortuna alla quale ancora non mi sono abituata. Ma, semplicemente vedo i miei figli crescere e non c’è mai abbastanza tempo per fare tutto, e io voglio godermeli il più possibile. Ho la mia vita qui a Bordeaux, nella mia casa nel verde, i miei ritmi e il mio stile di vita non sono cambiati». Vedremo le sue storie adattate sullo schermo, al cinema o in una serie tv?
«Ci sono molti adattamenti in corso d’opera, ma poi mi capita di rifiutarne. Per esempio, in un mio romanzo, Les possibles, racconto la storia di due ragazze che vogliono realizzare il sogno del padre, affetto da Alzheimer, e portarlo negli Stati Uniti a vedere i luoghi degli indiani d’America. Era anche il sogno di mio papà, anche lui malato di Alzheimer, e appassionato dei nativi americani. Nel libro, le figlie lo portano sulla Route 66, la mitica strada americana. Mi sono arrivate molte proposte di adattamento, e una per esempio, per risparmiare sui costi, proponeva di ambientare la storia in Bretagna... Quindi ho dovuto rifiutare. I miei romanzi, senza cadere nell’autofiction, sono troppo personali. Certe volte meglio lasciarli esistere solo sulla carta, e nell’immaginario dei lettori».
«VENGO DA UNA FAMIGLIA MODESTA, PENSAVO DI NON AVERE TALENTI. HO APERTO UN BLOG, SONO STATI I LETTORI A DIRMI: SCRIVI!»