VIOLENZA, SPERANZA «RACCONTO LA GUERRA È IL MIO #METOO»
La scrittrice in un romanzo che intreccia la piccola e la grande Storia. «L’ho tenuto nel cassetto per 30 anni»
La violenza — della guerra, del Ventennio fascista, della campagna d’Africa, degli uomini sulle donne — brutale fino al sadismo e, insieme, l’ostinazione a sperare, malgrado tutto, nel futuro. I giorni di Vetro di Nicoletta Verna è un romanzo epico, ambientato a Castrocaro nell’arco di tempo dall’omicidio Matteotti, 1925, alla Liberazione, con protagonista Redenta, «nata con la scalogna», zoppa per una poliomielite, la «scema del paese», eppure capace, lei così fragile, di resistere alla ferocia del suo tempo e alla bestialità del marito. Per Verna, nata a Forlì da padre castrocarese (anche se da anni vive a Firenze, dove lavora alla Giunti), scrivere questo romanzo è stato un modo per «tornare a casa». Una casa squassata dalla violenza radicale e distruttiva di quel pezzo di Storia, eppure sempre attraversata da un istinto di salvezza. Com’è riuscita a tenersi in equilibrio fra Storia e fiction?
«La genesi di questo libro è strana, era un racconto scritto ai tempi dell’univerità, 30 anni fa, Siena, facoltà di Scienza della comunicazione. Quando l’ho ripreso in mano, nonostante famiglia e lavoro, in quattro anni sono riuscita a finirlo, scrivendo nei weekend. Tutti i personaggi hanno radici nelle storie che ho ascoltato dai miei genitori, nei racconti di chi c’era, dalle cose più grandi ai piccoli aneddoti. Per esempio la Fafina – uno dei personaggi centrali - era la mia bisnonna, l’infermiera del dottore, volitiva, rispettata da tutti. Il romanzo è pura fiction, ma molto verosimile. È falso ma non impossibile, anzi realistico».
La cornice storica è molto solida, Redenta nasce a Castrocaro il giorno del delitto Matteotti.
«Ho fatto molta ricerca, era diventata un’ossessione. Ricerca sul periodo storico, ma anche sulla vita quotidiana della gente, sulla deriva violenta, sull’estrema povertà di quegli anni. Avevo moltissimo materiale su Castrocaro e questo mi ha aiutata. E poi c’è la Grande Storia, compresa tutta la vicenda coloniale».
La parte del romanzo sulla campagna d’Etiopia è di una violenza sconcertante.
«Il colonialismo italiano è un grande rimosso della coscienza civile, pubblica. Rodolfo Graziani, il gerarca fascista responsabile della strage di Addis Abeba nel febbraio 1937, non ha mai pagato, ha vissuto una vita pacifica fino alla fine dei suoi giorni. È stato qualcosa di cui, per mille motivi — vergogna, incapacità storica di affrontare quel periodo — non si è discusso. Certo, gli studiosi del colonialismo esistono — penso ai testi di Ian Campbell o Angelo Del Boca — ma nell’opinione pubblica il tema è meno noto, rispetto alla Resistenza, per esempio».
Vetro, a cui si riferisce il titolo, è il nome di un gerarca violentissimo.
«Vetro è il cattivo vero, non ha sfumature, è manicheo. Ha nella violenza una fiducia così cieca da renderlo paradossalmente vulnerabile, e cieca è anche la sua fede nel fascismo. Pure lui è una vittima, sono tutti vittime in questo romanzo: è la prima vittima di un sistema violento che l’ha del tutto assorbito».
Perché tutta questa violenza?
«È il tema del romanzo: dall’inizio, la specie umana progredisce attraverso la violenza. È il motore del progresso: aberrante, ma pur sempre un motore. La scimmia di Odissea nello spazio capisce di avere un intelletto nel momento in cui trasforma l’osso in un’arma. All’interno della violenza resiste però la pietà, ed è quello che ci ha permssso di non soccombere in questi millenni. La violenza è più evidente, la pietà è più piccola e nel romanzo ho voluto raccontare la pietà evangelica, quella di cui parla Matteo nel passo: ogni gesto che fate ai miei fartelli più piccoli è come se lo aveste fatto a me. Pensiamo spesso che la buona azione sia fine a sé stessa, ma ogni buona azione, se è tale, permea l’universo. Il gesto finale di Redenta è di immensa pietà, illumina la sua vita e, spero, anche il romanzo. Nonostante sia una storia di violenza, credo che il messaggio che arriva è di speranza, di luce».
Ha tenuto il racconto nel cassetto per trent’anni: perché farlo uscire ora? C’è attualità in questo romanzo storico?
«Ci ho pensato dopo averlo scritto e mi sono data questa spiegazione: l’estrema violenza, soprattutto esercitata sulle donne, già trent’anni fa era un tema fortissimo, eppure è come se solo adesso io abbia ritenuto questa storia degna di essere ascoltata da qualcuno. È un po’ il mio #metoo. Se la consapevolezza di quella violenza c’era anche prima, adesso c’è una nuova, forte esigenza di condivisione». Stanno uscendo molte storie ambientate nel periodo fascista.
«Ci sono tante risposte possibili. Il periodo fascista mi è sempre interessato dal punto di vista narrativo: c’è il tema della violenza, del conflitto, della colpa, dell’opporsi all’ingiustizia, metaforicamente è
una miniera di spunti. L’altro motivo sta nel fatto che la distanza storica ci consente finalmente di vedere meglio, come sotto una lente di ingrandimento, qualcosa che già conosciamo. E questo è talmente potente che possiamo riferirci a quell’epoca parlando però del presente».
E poi c’è Iris, partigiana nella banda del comandante Diaz, così diversa da Redenta, con la quale però condivide il destino. L’una immagina l’altra, specchiandosi nel suo fantasma.
«Ci ho lavorato tanto, è molto femminile questo modo di sentirsi un po’ inferiori e di immaginare invece l’altra sempre più bella, più forte, più determinata. Entrambe vedono nell’altra quello che non sono, o non sono più».
Il suo personaggio preferito? Chi è lei in questo romanzo?
«Sono Fafina, la donna più moderna, l’unica che non ha nessuna sottomissione né fisica né psicologica agli uomini. È capofamiglia, ha una propria visione del mondo. È il modello di donna che oggi sta cominciando a imporsi. Nella protagonista Redenta invece penso si immedesimeranno in poche: è difficile riconoscere di essere, come lei, vittime assolute del patriarcato».
Come prenderanno il romanzo a Castocaro? Mi riferisco alla violenza, alla disperazione, alla estrema povertà... Certe cose si tende a rimuoverle.
«Spero emerga però anche l’aspetto bello della solidarietà fra le persone, il coraggio di portare avanti la propria vita e poi di ribellarsi al fascismo. Dopo la prima stesura, mi sono chiesta: ma non avrò esagerato parlando di tutta questa miseria? Poi, confrontandomi con gli storici, ho capito che addirittura ci ero andata troppo leggera. “Guarda che a Castrocaro l’acquedotto è arrivato nel 1962”, mi dicevano, mentre io scrivevo di case con l’acqua corrente negli Anni 40. Castrocaro era una delle migliaia di Fontamare che c’erano in Italia. Mia nonna era vedova con tre figli, mio nonno venne ucciso da una granata, lo ha ricomposto lei nella cassa... Quando qualcuno dirà che questo libro è esagerato, risponderò che non è niente rispetto a quello che è accaduto in quegli anni e che accade oggi a chi vive nei conflitti. Se si parla di guerra, è questo ciò che succede».
Dall’uscita de Il valore affettivo sono passati tre anni. Il processo creativo è stato lo stesso?
«Il valore affettivo ci ho messo vent’anni a scriverlo: dovevo imparare tutto. Questa volta è stato più semplice, perché avevo già interiorizzato le tecniche di scrittura, il rigore».
Era più sicura?
«Sicura mai, sono sempre insicura e priva di qualunque forma di auostima. Diciamo scafata, smaliziata».
Il linguaggio de I giorni di Vetro è un amalgama di italiano e dialetto. Perché questa scelta?
«Dovevo rendere il parlato di persone senza cultura e, nello stesso tempo, fare in modo che quel parlato potesse diventare anche lingua letteraria».
«QUALCUNO DIRÀ CHE QUESTO LIBRO È ESAGERATO: RISPONDERÒ CHE NON È NIENTE RISPETTO A QUANTO È ACCADUTO»