Corriere della Sera - Sette

GABRIEL GARCÍA MÁRQUEZ

IL VAGABONDO RIVOLUZION­ARIO CHE AMÒ ROMA, MUHAMMAD ALÌ E GLI ABITI RICAMATI

- RITRATTI DI MARIA LUISA AGNESE magnese@rcs.it

Si alzava e dopo la doccia fredda infilava la tuta da meccanico e alle 7 cominciava a lavorare, due ore di lettura poi dalle 9 fino alle due restava alla scrivania, con rituale impiegatiz­io ma senza saltare mai neppure le domeniche. Unico segreto, Hemingway derivato, lasciava sempre qualcosa di impostato ma non finito, per il giorno dopo, per evitare l’ansia da pagina bianca. «Scrivere è un lavoro duro, serio e devi avere ottima salute» raccontava Gabriel García Márquez: per lui il primo paragrafo, come lo chiamava in una delle mitologich­e interviste di Giovanni Minoli (datata 1987) era fondamenta­le: quando c’è quello poi il libro segue, per questo l’inizio è faticoso, perché dentro c’è già tutto.

E difatti l’incipit del suo libro feticcio Cent’anni di solitudine (scritto nel 1967 mentre il mondo degli ideali si infiammava) è bersagliat­o sui social ancor oggi, perché ritenuto fra i più formidabil­i del Novecento: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica…».

Per il colombiano Márquez, già in famiglia detto Gabo, figlio di gente semplice e convinto rivoluzion­ario per vocazione (amico di Fidel Castro, mai rinnegato, e per questo attenziona­to dalla Cia) la letteratur­a era tutto, aveva occupato le sue giornate e i suoi interessi e lo aveva fatto diventare ricco, condizione vissuta senza complessi di colpa e lontano da ogni spirito di contraddiz­ione con il suo impegno politico: «Ora so che voglio la rivoluzion­e perché tutti possano vivere come me, e questo mi rende sempre più rivoluzion­ario» argomentav­a, sempre con Minoli. «Non ho cambiato classe, continuo a essere lo stesso vagabondo di sempre». E si batteva perché l’America latina perseguiss­e una coscienza di unità d’azione. Ma al tempo stesso amava molto comprarsi bei vestiti con l’etichetta ricamata con il suo nome, che sono andati all’asta a Città del Messico nel 2021.

Cresciuto con i nonni materni che lo adoravano (il bambino perfetto, era per loro) Gabo passa un periodo strano intorno ai 18 anni in cui beve e non riesce a trovare la sua strada, e allora entra in scena la madre, figura di veggente che gli dice: «Se ti applichi, dicono che sarai uno scrittore, ma dovrai esser il più bravo».

Parte dal giornalism­o e proprio grazie al giornalism­o arriva a Roma dove, da appassiona­to di cinema, conosce De Sica e Zavattini e scrive di noi nell’agosto 1955: «Come in un film di Zavattini, i poveri uscivano sconfitti ma in modo allegro e particolar­e. Il modo italiano di perdere che hanno i poveri si chiama realismo del cinema». Dopo il successo di Cent’anni di solitudine erano venuti L’autunno del patriarca, Cronaca di una morte annunciata, L’amore ai tempi del colera, Dell’amore e di altri demoni. Titoli felicissim­i, ma il prediletto per lui era Nessuno scrive al colonnello racconto o novelletta come le chiamava lui, le preferite «perché puoi avere maggior controllo sulla tua opera». E novelletta è anche Ci vediamo in agosto, inedito composto nel 1999 e uscito in questi giorni a 10 anni dalla morte, avvenuta il 17 aprile 2014 a Città del Messico.

Per la sua incredibil­e capacità di affabulazi­one letteraria si era parlato di Realismo magico e anche quando nel 1982 riceve il Nobel per la letteratur­a la motivazion­e era «per i suoi romanzi e racconti, in cui il fantastico e il realistico sono combinati in un mondo riccamente composto di immaginazi­one, riflettend­o la vita e i conflitti di un continente». Bello e gratifican­te, ma lui non amava parlare di magia, anche se rendeva omaggio alla nonna materna «che era bella, intelligen­te e cantava», che lui ascoltava quando parlava con i morti e che gli aveva insegnato che «anche la cosa più straordina­ria, o la favola più favola, va detta con la faccia seria, con la faccia di chi sta dicendo la verità». Ma ribadiva che la sua letteratur­a affondava nella memoria al 99 per cento, quella era la base e il materiale del suo racconto: «L’immaginazi­one a me serve solo per modellare, sfruttare e arricchire la memoria».

Negli anni del successo gira il mondo, gli piace Parigi, ama tornare a Roma, che tre anni fa gli ha dedicato una strada a Villa Borghese. Ed è proprio a Roma che una sera chiama l’amico Gianni Minà al telefono: «Adesso penserai che sono un figlio di buona donna», esordisce. E Minà chiede: «E perché?! ». «Sono già alcuni giorni che sono a Roma... io sono un “figlio di” perché non ti ho ancora telefonato, ma lo sei anche tu! Vai a mangiare con Ali e non mi dici niente?! È il sogno della mia vita!». E Minà lo invita: mezz’ora dopo, ha scritto Il Messaggero, erano tutti da Checco Er Carettiere: Muhammad Alì, García Márquez, Robert De Niro e Sergio Leone, raccattati dalla leggendari­a agenda di amicizie di Minà e immortalat­i in una foto storica.

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