Corriere della Sera - Sette

HARRY BELAFONTE

UN ATTIVISTA PER I DIRITTI CIVILI DEI NERI “NASCOSTO” DIETRO LE NOTE DEL CALYPSO

- RITRATTI DI MARIA LUISA AGNESE magnese@rcs.it

Con ritmo seducente, a metà degli anni Cinquanta aveva fatto ballare il mondo sulle note del calypso, danza caraibica. Eppure nel testo parlava già di diritti civili, riproponen­do i canti degli schiavi neri che di notte caricavano le banane in Giamaica: il suo album è stato nel 1956 il primo a infrangere il muro del milione di copie, battendo sul tempo anche Elvis the Pelvis: un record per i tempi, che per quanto ancora non lo sapessero o perlomeno non lo chiamasser­o ancora così, avevano trovato la loro superstar globale: Harry Belafonte. Canzoni, successo, film come L’isola nel sole e La fine del mondo, teatro, riconoscim­enti. E chi, se non lui, avrebbe potuto trovare ispirazion­e in quei ritmi, allevato nel mood dei nonni materni giamaicani risciacqua­ti nei sobborghi di Harlem: in quelle canzoni che facevano muovere i piedi al mondo del dopoguerra, lui vedeva ben altro, vedeva un’altra ispirazion­e: quella per la protesta e la difesa della sua gente e degli ultimi della Terra, in anticipo su tutti. Anche se per molti erano solo canzonette, per lui erano molto di più e se per lui avevano rappresent­ato il riscatto economico e sociale, non avevano mai appagato del tutto la sua voglia e la sua rabbia nella ricerca di equilibri diversi.

A temprarlo fu la madre Melvine, che lottava per tenere unita la famiglia nel mezzo di una povertà opprimente: «Fu lei a insegnargl­i che non dovresti lasciare che il sole tramonti senza combattere contro l’ingiustizi­a», ha scritto Judith E. Smith, nella biografia Becoming Belafonte: Black Artist, Public Radical. Un attivismo succhiato con il latte: «Tutti pensavano che io fossi un artista che diventa attivista, ma era vero il contrario: sono sempre stato un attivista dentro».

Per quanto anche bravo attore, in seguito si tiene lontano da parti a suo giudizio stereotipa­te sul clichè nero. Rifiuta per esempio Porgy and Bess, accettata poi dall’amico rivale Sidney Poitier. Da neo superstar preferisce usare la sua influenza e le sue abilità di uomo di spettacolo per la causa. Ad esempio, nel 1968 sostituì per 5 giorni il conduttore Johnny Carson al The Tonight Show della Nbc, «cambiando il colore e la storia della tv Usa» (Aldo Grasso). La giornalist­a Christiane Amanpour ha poi raccontato che quando Belafonte aveva invitato allo spettacolo l’amico Martin Luther King c’era stata qualche perplessit­à. E che

a chi gli chiedeva: «Ma verrà a parlare di quella roba dei diritti civili?», Harry rispondeva: «Cosa volete che venga a fare? A cantare una canzone?». Usava le sue abilità di uomo di spettacolo per violentare il sistema, ma con il sorriso. Il New York Times parlò di «intratteni­mento radicale», e lui spiegò che all’inizio non capiva la «non violenza»: l’aveva adottata solo come un trucchetto che funzionava, mentre l’uomo che l’aveva convertito cambiando la sua visione era stato proprio Martin Luther King.

Con energia sorprenden­te condusse una campagna contro l’apartheid in Sud Africa facendo amicizia con Nelson Mandela, si mobilitò per il sostegno alla lotta contro l’Aids e divenne anche Ambasciato­re di Buona Volontà dell’Unicef. Nel 1985 si inventa Usa for Africa e riesce a riunire per una notte 45 superstar (da Michael Jackson a Lionel Richie, da Stevie Wonder a Bob Dylan, da Bruce Springstee­n a Tina Turner) a cantare We Are the World, dirette da Quincy Jones: durante la registrazi­one-evento, che ha raccolto 80 milioni di dollari per la carestia in Etiopia, viene applaudito da tutto il gruppo che intona in suo onore, in fuori programma, la sua Banana Boat Song, come si racconta nel documentar­io appena uscito su Netflix La notte che ha cambiato il pop. «Crediamo che gli artisti abbiano una funzione preziosa in ogni società, perché sono gli artisti a rivelare la società a sé stessa».

Ha criticato la Casa Bianca di George W. Bush per l’invasione dell’Iraq nel 2003 e fece scandalo quando paragonò Colin Powell, anch’egli di origine giamaicana, all’epoca segretario di Stato, a uno «schiavo domestico». Non è stato tenero neppure con Barack Obama, primo presidente Usa afroameric­ano: «Dotato com’è di acume ed intelligen­za, Obama sembra mancare totalmente di empatia verso i diseredati, siano essi bianchi o neri».

Morì il 25 aprile 2023 a 96 anni nella sua casa di 21 stanze al 300 West End Avenue di Manhattan, comprata 50 anni prima. Lo fece quando chi gliela aveva affittata lo voleva cacciare dopo aver scoperto che era afroameric­ano. Fu a lungo usata dai leader del movimento e da alcuni funzionari americani come luogo di dibattito e mediazione. Diceva che «l’America è corrosa dal razzismo, ha un Dna fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finche vivrò». E anche oltre.

 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy